Uno dei problemi più comuni affrontati dagli utenti dei servizi psichiatrici è l’impossibilità di esercitare una libera scelta tra i vari Centri di Salute Mentale (CSM) e Centri Psicosociali (CPS) nella propria regione. Inoltre, all’interno delle strutture psichiatriche pubbliche, i pazienti non possono scegliere liberamente lo psichiatra che ritengono più adatto alle loro esigenze. Questa limitazione non solo compromette la qualità del trattamento, ma può anche violare la riservatezza, obbligando i pazienti a ricorrere ai servizi presenti nel loro quartiere o paese, con il rischio di essere stigmatizzati dai vicini.
A differenza di altre specialità mediche, in psichiatria vige una rigida “suddivisione territoriale” dei pazienti, che impedisce loro di rivolgersi al medico di fiducia o a quello ritenuto più competente. Tale prassi costringe molti a optare per un medico privato, una scelta non accessibile a tutti a causa dei costi. Ma perché questa prassi è così consolidata in psichiatria? La giustificazione comune è che esistono ‘motivi organizzativi’, secondo i quali i pazienti devono essere seguiti sul territorio. Ma queste motivazioni non trovano un reale fondamento nelle leggi italiane.
Secondo la legge 833 del 1978, articolo 19, i cittadini hanno diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura, “nei limiti oggettivi dell’organizzazione dei servizi sanitari”. Questo diritto è ulteriormente confermato all’articolo 33, che lo estende anche ai pazienti psichiatrici, anche nei casi in cui è necessario un trattamento obbligatorio. La legge 502/92 e la giurisprudenza successiva hanno continuato a garantire questo diritto, sottolineando che solo limiti oggettivi e insuperabili dell’organizzazione dei servizi sanitari possono limitarlo.
È evidente che le scelte organizzative dovrebbero essere subordinate al rispetto dei diritti individuali, e non il contrario. Tuttavia, la realtà mostra una situazione diversa, dove la territorialità è spesso imposta con la pretesa che garantisca un miglior trattamento per il paziente. Questo tipo di paternalismo, riservato solo ai pazienti psichiatrici, suggerisce una forma di discriminazione basata su una “condizione personale”, in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione italiana, che sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
Oltre a violare la Costituzione, la negazione del diritto alla scelta del medico è in contrasto con il Codice di Deontologia Medica. L’articolo 3 del Codice afferma che il medico deve tutelare la salute psico-fisica del paziente nel rispetto della sua dignità e libertà, senza alcuna discriminazione. L’articolo 27, invece, sancisce esplicitamente la libera scelta del medico e del luogo di cura come diritto fondamentale del cittadino.
Considerando tutto ciò, è difficile sostenere che un “diritto fondamentale del cittadino” debba dipendere dalla possibilità di pagare una visita in regime di libera professione. Pertanto, se un servizio pubblico o accreditato rifiuta l’assistenza a un paziente psichiatrico, è consigliabile inviare una richiesta formale al Direttore Generale della struttura (o al Direttore Sanitario o al Direttore del Dipartimento di Salute Mentale) chiedendo:
– In base a quali norme l’azienda impone limiti territoriali all’accesso ai servizi psichiatrici, non previsti dalle leggi citate.
– Come tali norme, se esistenti, siano compatibili con i principi costituzionali e con i fondamenti dell’esercizio della professione medica.
– In assenza di tali norme, quali provvedimenti si intendano adottare per garantire il diritto costituzionale alla libertà di scelta.
Questi passi sono essenziali per rivendicare e difendere un diritto che, secondo la legge, appartiene a tutti i cittadini, senza eccezioni.
Per approfondimenti si consiglia il sito gestito dalla dott.ssa Mariagrazia Fasoli