Estratto dal Dossier : Dossier Abusi ADS La Voce di Trieste 2013
L’essenza del problema è il diritto di difesa
Tutti sanno che nel caso di sospetta commissione di reati non è lecito ritenere colpevole la persona e punirla con limitazioni durevoli del diritto a disporre della propria vita e dei propri beni se e finché la colpevolezza non sia definitivamente provata attraverso equo giudizio.E che per essere equo il giudizio deve offrire anzitutto in ogni sua sede e grado piene garanzie di difesa e di terzietà dei giudici.
Ad analoga e maggior ragione dunque in uno Stato di diritto non si deve poter decretare la privazione giudiziaria di quei diritti fondamentali per sospetta malattia mentale senza che ne siano accertate con garanzie di pari completezza e rigore la sussistenza effettiva e le necessità obiettive conseguenti.
Sia nella prassi psichiatrica italiana pre-riforma che in quella riformata i provvedimenti restrittivi delle libertà personali potevano e possono venire invece assunti, anche all’insaputa dei destinatari, direttamente sulla base di attestazioni di attestazioni dello stato di malattia mentale fornite da operatori sanitari o sociali al giudice o sindaco tecnicamente imperiti. Che come tali si limitano a ratificarli in fiducia, e rimangono anche i destinatari e decisori di eventuali ricorsi o reclami contro i propri stessi provvedimenti.
Mancano cioè le garanzie costituzionali primarie dell’equo giudizio: la nomina obbligatoria di un difensore di fiducia o d’ufficio e di consulenti tecnici di parte (ctp), il contraddittorio pubblico ed il ricorso a giudice terzo.
Tutte le altre distorsioni possibili nei provvedimenti sono subordinate e conseguenti a questa clamorosa violazione dei diritti umani garantiti univocamente dall’ordinamento italiano, comunitario europeo ed internazionale.
E perciò reclamabile a tutti questi livelli, trattandosi di diritti insopprimibili ed irrinunciabili, poiché non vi è altra garanzia concreta possibile della correttezza, competenza ed affidabilità dell’agire degli operatori sanitari, sociali e giudiziari coinvolti nella decisione. Che non possono certo essere presunte in materia di manipolazione della vita e dei beni di soggetti deboli.
Tanto più in presenza notoria di una casistica di abusi specifici e del quadro sopra delineato di devianze dell’assistenza psichiatrica.
L’interdizione e l’inabilitazione, istituti classici sperimentati di tutela del soggetto totalmente o parzialmente incapace per infermità mentale di provvedere personalmente alle proprie necessità, offrono almeno migliori garanzie istruttorie e prevedono maggiori controlli anche sull’operato rispettivamente dei tutori e curatori nominati dall’autorità giudiziaria.
La privazione o compressione illegittima del diritto di difesa si accentua invece praticamente fuori controllo nei provvedimenti legati alla riforma psichiatrica ed alle sue carenze. A cominciare dal Trattamento sanitario obbligatorio, Tso, previsto dalla legge 180/78, col quale il sindaco dispone su segnalazione il ricovero forzato di un soggetto (che viene così catturato, rinchiuso e sottoposto a sedazione ed altro anche contro la propria volontà).
Anche se una provvida sentenza ottenuta nel 2010 dall’avvocato pordenonese Gianni Massanzana ha perciò stabilito che il sindaco non possa firmare l’ordinanza di ricovero sulla sola base della richiesta specialistica senza procedere ad una verifica tecnica autonoma della sua veridicità.
Difetti evidenti della legge 6/2004
Non così ancora nell’amministrazione di sostegno, ideata ed introdotta dagli stessi ambienti della riforma psichiatrica nel codice civile con la legge n. 6/2004 presentandola come una forma di tutela giudiziaria più blanda, rispettosa ed elastica dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Che come tale potrebbe funzionare, ed in molti casi funziona, benissimo se la legge non contenesse delle trappole logico-giuridiche che consentono anche di utilizzarla brutalmente come strumento di interdizione impropria su qualsiasi soggetto debole ed in violazione radicale dei diritti di difesa e dell’equità del giudizio.
La norma (art. 404 c.c.) estende infatti smisuratamente ed al di là dell’infermità mentale le categorie di persone sottoponibili al provvedimento, perché stabilisce che il giudice tutelare possa sottoporre ad Amministratore di sostegno, su richiesta o segnalazione, la persona afflitta da una “infermità o menomazione fisica o psichica” che le renda “anche” parzialmente e temporaneamente impossibile provvedere ai suoi interessi.
Una formula che può dunque sembrare adeguata ed elegante, ma è invece così incautamente ed anti giuridicamente generica da poter coprire casi che vanno dall’estremo dell’infermità psichica con incapacità permanente totale (propria dell’interdizione) o parziale (propria dell’inabilitazione) sino al semplice stress, alla comune depressione od al banale impedimento fisico temporaneo per una qualsiasi malattia od esito d’incidente che impediscano di far la spesa e pagare le bollette.
E non offre infatti la minima certezza giuridica sulla tipologia ed il grado dell’infermità e dell’incapacità necessarie e sufficienti a limitare le libertà della persona (perché di questo si tratta)sottoponendone la vita ed i beni ad un’amministrazione di sostegno.
Che può diventare così una forma di limitazione o privazione dei diritti umani attivabile per legge, e su semplice segnalazione ritenuta credibile dal giudice fuori da rituale contraddittorio, a peso di qualsiasi persona che possieda beni mobili od immobili trovandosi in difficoltà reali o presunte, ed anche temporanee, ad amministrarli.
Nel concreto, quello che sta perciò documentatamente accadendo a Trieste ed altrove in Italia in maniera episodica o sistematica è che: vengono sottoposte ad amministrazione di sostegno anche persone capaci di gestirsi; il provvedimento viene assunto contro la loro volontà o addirittura a loro insaputa su segnalazioni non adeguatamente verificate di alcuni operatori sociosanitari; il tribunale non affida il ruolo di amministratore di sostegno a parenti o persone amiche adatte e gratuitamente disponibili, ma ad avvocati, commercialisti od ai predetti operatori, ed anche con onorari a spese dell’amministrato; tali amministratori ricevono dal giudice poteri totalitari, analoghi a quelli dell’interdizione, che giungono a privare l’asserito “beneficiario” non solo dell’amministrazione dei suoi beni ma anche della gestione della propria salute e addirittura della corrispondenza.
Si tratta di violazioni radicali ed anticostituzionali dei diritti fondamentali alla difesa ed al giusto processo, destinate a particolari soggetti deboli in violazione del principio di eguaglianza dei cittadini. E tali da consentire anche arbitrii concreti gravissimi che trasformano i “beneficiari” teorici di sostegno a vitti me inermi di abusi intollerabili.
Decreti di nomina con cui il giudice tutelare abbia conferito all’amministratore di sostegno poteri che incidono su diritti e libertà inviolabili della persona senza garantirle la difesa ed il contraddittorio nel giudizio, nonché per violazione di legge quando tali poteri risultino eccessivi identificandosi con quelli propri dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Nelle forme d’abuso primario tipiche sinora riscontrate, l’assegnazione dell’amministrazione di sostegno risulta originata da richieste di operatori psichiatrici o sociali che drammatizzano la situazione del soggetto e ne screditano gli eventuali famigliari o fiduciari.
Il giudice tutelare accoglie queste relazioni come veritiere senza controperizia, non riconosce alla persona il diritto alla difesa tecnica in contraddittorio tramite un avvocato e periti di parte, e le impone senza o contro sua espressa volontà, o a sua insaputa, un amministratore di sostegno estraneo.
Ed il giudice assegna poteri che incidono sulle libertà fondamentali della persona (di amministrarsi, ricevere la corrispondenza, decidere sulle cure mediche), sino a coincidere con quelli previsti per l’interdizione o l’inabilitazione. Che invece competono al Tribunale collegiale d’iniziativa del Pubblico Ministero, e con garanzia di difesa in contraddittorio.
L’amministrazione di sostegno risulta così trasformata arbitrariamente in interdizione od inabilitazione impropria e sottratta alle garanzie difensive. E senza contestazione efficace del Pubblico Ministero, che ha l’obbligo di intervenire anche nella nomina dell’amministratore di sostegno e proporre reclamo quando il decreto del giudice tutelare risulti contrario alla legge.
Il giudice tutelare ha il potere e l’obbligo di impedire gli abusi verificando le relazioni periodiche degli amministratori, inclusi rendiconti, stime di beni, modalità di vendita e relazioni di operatori sanitari, psichiatrici o sociali. Ma nel concreto non ne ha il tempo né i mezzi, e finisce per autorizzare o lasciar compiere anche operazioni quantomeno discutibili.
In sostanza, uno strumento giuridico di assistenza moderata a soggetti deboli viene invece utilizzato coercitivamente in violazione dei loro diritti fondamentali, di libertà, proprietà e difesa. A lucro di terzi e con le necessarie complicità ambientali attive e passive.
Il giudice tutelare non può dunque far coincidere integralmente i poteri dell’amministratore di sostegno con quelli del tutore o del curatore, che come tali possono venire assegnati soltanto dal Tribunale con gli istituti e le procedure dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Se i poteri dell’amministrazione di sostegno si limitano a quelli di una blanda assistenza ordinaria non occorrerebbe garantire all’assistito la difesa legale, che diventa invece obbligatoria se intaccano la sua capacità giuridica di agire, configurandosi altrimenti violazione di diritti umani fondamentali garantiti dall’ordinamento, e dunque nullità originaria ed assoluta dell’atto.
Che come tale può essere fatta valere in ogni momento e sede, incluse quelle comunitarie ed internazionali: si vedano anche i principi corrispondenti introdotti nell’ordinamento dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13.12.2006 e ratificata dall’Italia con L. n. 18/2009.
Questo significa che decine, se non centinaia o più, di decreti di nomina di amministratori di sostegno, a Trieste ed altrove, risultano giuridicamente nulli, e con essi i poteri e gli atti conseguenti degli amministratori.
L’interrogativo è a questo punto se l’Autorità giudiziaria, ed a quali livelli, intende provvedere d’ufficio ad interrompere ed annullare le procedure di nomina illegittime liberandone gli amministrati, o se occorreranno valanghe di ricorsi individuali dei danneggiati, o class actions.
Paolo G. Parovel
La Voce di Trieste, anno 2013