Di Maria Rosaria D’Oronzo
La vicenda di Elia Del Grande, autore della “strage dei fornai” del 1998, è la drammatica verifica sul campo dei principi no-psichiatrici di Giorgio Antonucci. La sua fuga da una Casa di Lavoro (2025) e le lucide comunicazioni mediatiche hanno trasformato un atto di evasione in una denuncia pubblica contro la coercizione istituzionale.
La sua accusa è netta, e risuona come un monito antipsichiatrico: le Case di Lavoro sono “i vecchi OPG travestiti” dove si vive nell’abbandono.
Del Grande fu condannato a 30 anni, ma il riconoscimento della semi-infermità mentale ha innescato il doppio binario, un sistema criticato come struttura di controllo sociale mascherata da legge (Antonucci, Szasz e altri). Scontati circa 26 anni, è scattata la misura di sicurezza detentiva (Casa di Lavoro) a causa della persistente pericolosità sociale legata al suo processo di condanna.
Questo passaggio dal tempo certo al tempo indefinito è il nucleo della sua protesta. Del Grande lamenta:
“Io sono stato condannato ad anni 30… mi sono ritrovato nuovamente peggio di un detenuto… ho visto non considerato il mio impegno lavorativo. Le case di lavoro oggi sono delle carceri effettive… chi è sottoposto alla casa di lavoro non è un detenuto, bensì un internato, ovvero né detenuto, né libero.”
L’essere un internato significa l’assenza di benefici e l’essere sottoposto a sole proroghe semestrali. Questa negazione della pienezza dei diritti di cittadinanza e della libertà ripropone il tema centrale di Antonucci: la dignità umana e la capacità giuridica devono essere premesse di qualsiasi percorso, non un premio da guadagnare sotto coercizione.
Il legame di Del Grande con la psichiatria è il motivo legale della sua detenzione e la prova del fallimento etico delle strutture. Le Case di Lavoro, destinate ai soggetti semi-infermi di mente, dovrebbero offrire un percorso curativo. Invece, Del Grande accusa:
“… la terapia, chiaramente psicofarmaco, viene data in dosi massicce a chiunque senza problemi. L’attività lavorativa esistente è identica a quella dei regimi carcerari.”
Questa è la realizzazione della critica antonucciana agli psicofarmaci: usati come strumento di controllo e sedazione di massa, volti a quietare l’individuo anziché favorire il dialogo e l’espressione autentica. La psichiatria è ridotta a mero controllo chimico.
Il ritorno coatto alla Casa di Lavoro ha cancellato il suo faticoso percorso di reinserimento (lavoro, compagna, autonomia), la vera prova, per Antonucci, di guarigione e reinserimento sociale:
“Avevo ripreso in mano la mia vita… tutto questo svanito nel nulla per la decisione di un magistrato di Sorveglianza… [che mi ha] riproponendomi soltanto la realtà repressiva carceraria, anzi quella delle case lavoro è ben peggio”.
La denuncia di Del Grande trova tragica conferma nella ricerca della Società della Ragione (“Un ossimoro da cancellare”, Menabò 2024).
Il paradosso è evidente: si continua a restare chiusi in cella, senza programmi, senza lavoro, senza prospettive.
A sentire i racconti degli stessi internati, il lavoro non solo è assente: è inesistente. Nulla, o quasi nulla, viene proposto.
La misura di sicurezza si svuota del suo senso originario – prevenire, rieducare – e diventa pura afflizione.
Questo sistema in cui l’etichetta prevale sul fatto e sul percorso rieducativo è l’antitesi della dignità umana.
La vicenda si allinea perfettamente alla critica radicale che ha portato alla stesura della CRPD e alle denunce del CPT:
CEDU (Art. 3 e 5): L’assenza di cura efficace e la detenzione indefinita sono la negazione della dignità e configurano un trattamento degradante. La detenzione, basata su una pericolosità che il sistema non rimuove, mette in discussione la legittimità della privazione della libertà.
CRPD (Inclusione e Autonomia): La detenzione coatta e la perdita del lavoro sono la negazione del diritto all’autonomia e all’inclusione sociale (Art. 19).
Conclusione: Il caso Del Grande è la dimostrazione che il sistema delle misure di sicurezza è ancora un apparato di coercizione e abbandono, ben lontano dal dialogo e dal rispetto di Giorgio Antonucci. La sua fuga è la disperata richiesta di un internato di essere riconosciuto come cittadino con diritto alla libertà, alla cura autentica e alla dignità, principi che sono stati negati dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto riabilitarlo.
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