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Diritti alla follia

Associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico.

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Diritti alla Follia

LETTERA APERTA: C’era una volta una famiglia nel bosco…Sulla vicenda di Palmoli e sul dovere istituzionale di tutelare anche le scelte non conformi

Diritti alla Follia · 21/11/2025 · Lascia un commento

Si trasmette in allegato la documentazione ufficiale relativa alla vicenda della famiglia di Palmoli, predisposta dall’Associazione Diritti alla Follia. Si chiede cortese presa in carico e riscontro istituzionale.

In allegato si inviano la lettera aperta, l’articolo e il comunicato stampa dell’Associazione Diritti alla Follia

LETTERA APERTA

C’era una volta una famiglia nel bosco…
Sulla vicenda di Palmoli e sul dovere istituzionale di tutelare anche le scelte non conformi

Alla cortese attenzione di:
– Ministro dell’Istruzione e del Merito
– Ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità
– Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza
– Garante regionale per l’Infanzia e l’Adolescenza
– Presidente del Consiglio
– Conferenza delle Regioni
– Conferenza Nazionale Minori
– Ordine degli Assistenti Sociali
– Commissioni parlamentari competenti

Oggetto: tutela dei diritti dei minori, rispetto delle libertà familiari e necessità di piena trasparenza nella vicenda della famiglia di Palmoli

Gentili Autorità,
l’associazione Diritti alla Follia segue da tempo, con crescente preoccupazione, la vicenda della famiglia che vive nei boschi di Palmoli, in Abruzzo. Ci rivolgiamo alle Istituzioni per esprimere un allarme che non riguarda solo un caso individuale, ma l’intero equilibrio tra libertà, prevenzione e controllo istituzionale nel nostro Paese.

In Italia si parla molto di prevenzione: prevenire lo stress, le condizioni ambientali tossiche, l’ipercompetizione scolastica, la sofferenza psichica che nasce da ritmi di vita sempre più frenetici.
Esiste però un paradosso: quando la prevenzione viene esercitata dalle famiglie in forme autonome,

Come ricordato dalla stampa nazionale – tra cui Il Centro (1 novembre) e L’Indipendente (5 novembre) – Nathan e Catherine avevano compiuto una scelta educativa e di vita meditata:

  • vivere lontano dallo stress urbano
  • crescere i loro tre figli a contatto diretto con la natura
  • praticare istruzione parentale e percorsi non standardizzati
  • proteggere l’infanzia da modelli percepiti come iperconsumistici e accelerati

Una scelta fondata su argomenti pedagogici, ecologici, filosofici.

Tuttavia questa scelta è stata oggetto di segnalazione, indagine e sospetto, fino all’ipotesi di sospensione della responsabilità genitoriale.

Il 20 novembre 2025, secondo quanto riportato da numerose testate, il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha disposto l’allontanamento immediato dei tre minori e la sospensione in via esecutiva della responsabilità genitoriale, nominando un tutore provvisorio.

Nonostante:
– una copertura mediatica imponente
– il coinvolgimento dei garanti nazionale e regionale
– una petizione con oltre 31.000 firme
– la testimonianza di giornalisti che hanno condiviso la quotidianità della famiglia
– la presenza costante dell’avvocato difensore

i bambini sono stati prelevati e collocati in una comunità educativa “per un periodo di osservazione”.

Ci chiediamo: osservazione di cosa? Della loro conformità a uno standard? Della loro capacità di adattarsi a un contesto che non appartiene alla loro esperienza?

In una democrazia, la diversità delle scelte esistenziali dovrebbe essere tutelata, non punita.
È legittimo discutere della sicurezza di una casa priva di elettricità o gas; è doveroso verificare la presenza di adeguati strumenti educativi.
Ma è altrettanto doveroso riconoscere che la sola divergenza dal modello dominante non può essere considerata un rischio in sé.

Nel valutare la “tutela” dei minori, nessun atto pubblico sembra interrogarsi su aspetti fondamentali del loro benessere reale, corporeo e quotidiano:

– Quale sarà l’impatto su organismi cresciuti con cibo naturale e autoprodotto, ora esposti a conservanti, pesticidi, farine raffinate?
– Come reagiranno sistemi immunitari abituati all’aria di bosco al contatto con ambienti chiusi e affollati?
– Che effetti avranno nuovi ritmi sonno–veglia imposti da regolamenti rigidi, lontani dai cicli naturali?
– Perché l’assenza di plastica nella loro quotidianità viene letta come carenza, mentre l’esposizione improvvisa a materiali sintetici non viene problematizzata?

Queste domande rientrano pienamente nel concetto di prevenzione che le istituzioni dichiarano di voler promuovere.

Mentre questa famiglia viene considerata a rischio perché troppo “diversa”, un altro caso – quello di Paolo Mendico, 14 anni, morto suicida dopo ripetuti episodi di bullismo denunciati senza esito – mostra come il sistema ordinario non sempre riesca a prevenire la sofferenza.

Una famiglia fuori norma viene trattata come potenzialmente pericolosa.
Una famiglia dentro la norma non viene protetta in tempo da una violenza documentata.

È legittimo chiedersi dove si annidi davvero il rischio.

Alla luce di quanto esposto, Diritti alla Follia chiede formalmente:

  1. La revisione urgente del provvedimento di allontanamento, con valutazione specifica dell’impatto della misura sul benessere fisico ed emotivo dei minori
  2. La nomina di un’équipe terza e indipendente, con competenze in pedagogie alternative, ecologia dello sviluppo e modelli non standard di educazione familiare
  3. La garanzia di piena trasparenza su tutti gli atti, comprese le motivazioni complete dell’“osservazione” richiesta
  4. L’apertura di un tavolo nazionale sulle pratiche di vita alternativa, istruzione parentale e minoranze educative, per evitare che la diversità sia automaticamente scambiata per pericolo.
  5. La tutela effettiva della privacy della famiglia, già gravemente compromessa

C’era una volta una famiglia nel bosco.
Oggi quella famiglia è divisa, in nome della sicurezza e della normalizzazione.

È urgente interrogarsi su quale società stiamo costruendo: una società che protegge solo ciò che conosce, o una società capace di riconoscere e tutelare anche ciò che esce dal campo visivo del modello dominante?

Con rispetto ma con determinazione,
chiediamo che una scelta di vita alternativa non venga trasformata in un reato di diversità.

Diritti alla Follia – Associazione nazionale per la tutela dei diritti nelle pratiche psichiatriche e sociali
21 novembre 2025

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COMUNICATO STAMPA: Palmoli: Diritti alla Follia denuncia una deriva istituzionale nella gestione delle scelte familiari alternative

Diritti alla Follia · 21/11/2025 · Lascia un commento

Roma, 21 novembre 2025 – L’associazione Diritti alla Follia esprime profonda preoccupazione per il provvedimento con cui il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila ha disposto l’allontanamento dei tre figli della famiglia che vive nei boschi di Palmoli, in Abruzzo.
La misura è stata eseguita nella serata di ieri, con trasferimento dei minori in una comunità educativa “per un periodo di osservazione” e sospensione in via esecutiva della responsabilità genitoriale.

Secondo l’associazione, il caso rappresenta un punto critico nel rapporto tra libertà familiari, modelli educativi non standard e intervento delle autorità.
“In un Paese che parla di prevenzione, la prevenzione autonoma viene trattata come sospetta. Qui la diversità è stata scambiata per pericolo”, afferma l’associazione.

Diritti alla Follia rileva inoltre una sproporzione tra la scelta di vita della famiglia – motivata da ragioni pedagogiche, ecologiche e di protezione dell’infanzia – e la risposta istituzionale, che arriva dopo settimane di esposizione mediatica, visite dei garanti, appelli pubblici e una petizione con oltre 31.000 firme.

La vicenda, si sottolinea nel comunicato, solleva interrogativi più ampi sulla tendenza italiana a patologizzare ciò che non rientra nei modelli dominanti, mentre casi di sofferenza reale – come quello di Paolo Mendico, il quattordicenne vittima di bullismo – dimostrano falle evidenti nei sistemi di tutela ordinari.

L’associazione chiede:
– la revisione urgente del provvedimento;
– la nomina di un’équipe valutativa indipendente;
– piena trasparenza sugli atti;
– l’apertura di un tavolo nazionale sulle scelte educative e abitative non standard.

“C’era una volta una famiglia nel bosco”, conclude Diritti alla Follia. “Oggi quella storia finisce in comunità. È il momento di chiederci quale spazio l’Italia intende riconoscere alla libertà di vivere e crescere i propri figli in modi diversi, ma non per questo meno responsabili.”

Allegati:
– Articolo integrale pubblicato sul blog Diritti alla Follia
– Lettera aperta alle istituzioni

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C’era una volta una famiglia nel bosco…

Diritti alla Follia · 21/11/2025 · Lascia un commento

Rassegna, riflessioni e denuncia sulla vicenda di Palmoli

In Italia si parla continuamente di prevenzione.
Prevenire lo stress, prevenire l’esposizione ad ambienti tossici, prevenire le pressioni sociali, prevenire il malessere psicologico che nasce sempre più spesso da ritmi di vita che consumano, schiacciano, logorano.

Eppure – paradossalmente, drammaticamente – chi prova a costruire una forma autonoma di prevenzione viene guardato con sospetto.
Va incontro a controlli, indagini, valutazioni sospensive, fino all’intervento più estremo che un’istituzione possa compiere: l’allontanamento dei figli dal nucleo familiare.

Il caso della famiglia che vive nel bosco di Palmoli, in Abruzzo, è diventato il simbolo di tutto questo.

Il 1° novembre Il Centro pubblica una lettera firmata da Nathan e Catherine:
“Scelta consapevole contro la società tossica”, titolo dell’articolo di Gianluca Lettieri.
Poi, il 5 novembre, L’Indipendente racconta la loro quotidianità:
“Vita nel bosco, senza scuola: per una famiglia è un diritto o un abuso?”.

La loro scelta è chiara:
– vivere lontano dallo stress urbano
– far crescere i figli in mezzo alla natura, con ritmi lenti
– praticare istruzione parentale non standardizzata
– proteggere i bambini da un mondo percepito come troppo veloce, competitivo, disconnesso dai bisogni primari dell’infanzia.

Una scelta argomentata, meditata, coerente.
Eppure, la Procura minorile segnala il caso.
Eppure, arrivano ipotesi di sospensione della responsabilità genitoriale.
Eppure, l’intero Paese sembra chiedersi: quando una scelta alternativa diventa automaticamente un segnale di pericolo?

Questa domanda, per Diritti alla Follia, è centrale:
perché ciò che esce dalla norma viene così rapidamente patologizzato?
Perché libertà educativa e diversità esistenziale vengono trattate come una minaccia?

Dopo giorni di sovraesposizione mediatica, visite di giornalisti, dichiarazioni dei garanti per i diritti dell’infanzia, appelli pubblici e una petizione da 31.000 firme, arriva la notizia che nessuno voleva leggere.

Il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila dispone l’allontanamento immediato dei tre bambini.

Secondo Sky TG24, Corriere della Sera e altri quotidiani, l’ordinanza motiva così:
– la casa nei boschi è priva di elettricità, acqua e gas
– esiste un rischio per il “diritto alla vita di relazione” dei minori
– va “osservata la situazione complessiva in una struttura educativa”.

L’ANSA specifica che la responsabilità genitoriale viene sospesa in via esecutiva, con nomina di un tutore provvisorio.

I bambini vengono prelevati la sera, senza auto con sirene, accompagnati da servizi sociali e forze dell’ordine.
La madre può seguirli in comunità; il padre resta solo nel bosco.

Eppure, i genitori respingono qualsiasi accusa di incuria.
Raccontano di bambini sereni, nutriti con cibo autoprodotto senza additivi, abituati a lavarsi con acqua di sorgente, educati senza violenza e senza schermi.
Rivendicano l’unschooling come scelta pedagogica riconosciuta.

L’avvocato Giovanni Angelucci annuncia ricorso, denunciando errori nell’ordinanza, tra cui la contestazione di un attestato di idoneità già convalidato per l’istruzione parentale.

Intanto, la loro privacy è ormai distrutta:
giornalisti dentro e fuori casa, telecamere puntate sulle stoviglie, sui letti, sul bagno, sulla dispensa.
Ogni gesto quotidiano osservato, discusso, analizzato.
Una violenza istituzionale che non è stata arginata da niente:
– né dai garanti regionale e nazionale
– né dalle testimonianze dei giornalisti che hanno vissuto con loro
– né dalle migliaia di cittadini solidali.

Oggi, 21 novembre 2025, i giornali informano che i tre bambini sono in comunità, “sotto osservazione”.

Ma osservazione di cosa?
Della loro “normalità”?
Del loro adattamento a un ambiente che non hanno mai conosciuto?

E allora vengono alla mente domande che nessun tribunale sembra porsi:

– Come reagiranno corpi abituati a cibo naturale a pasti con conservanti, farine raffinate, pesticidi?
– Come risponderà un sistema immunitario cresciuto in aria di bosco al contatto con virus e batteri di ambienti chiusi?
– Come vivranno bambini cresciuti senza plastica in stanze piene di materiali sintetici?
– Che effetto avrà un ritmo sonno–veglia dettato dai regolamenti, invece che dalla luce naturale?

Queste non sono domande marginali.
Sono domande che riguardano la prevenzione — quella vera, quella corporea, quella quotidiana — che una famiglia aveva scelto di praticare.

Lo stridore più doloroso emerge confrontando questa storia con un’altra, tremenda.

Il caso di Paolo Mendico

Paolo, 14 anni, muore suicida a settembre 2025 dopo mesi di bullismo documentato.
Il fratello aveva scritto al Governo e al Ministro dell’Istruzione.
La scuola era stata informata.
Nessuna istituzione è intervenuta in tempo.
La prevenzione — quella promessa nei protocolli, nei Piani di Zona, nelle linee guida ministeriali — non ha funzionato.

E oggi, mentre la famiglia di Paolo chiede accesso agli atti per capire cosa sia accaduto davvero, la domanda si impone:

Davvero siamo certi che la famiglia nel bosco sia “la famiglia sbagliata”?
O è semplicemente quella che non rientra nel modello istituzionale dominante?

Da un lato:
una famiglia che sceglie lentezza, natura, relazioni affettive profonde, protezione dai modelli consumistici.

Dall’altro:
un sistema scolastico e sociale in cui un ragazzo di 14 anni può subire violenza quotidiana senza che nessuno riesca ad intervenire.

E allora: dov’è davvero il rischio?
Dove nasce davvero la sofferenza psichica?
Chi decide quali forme di prevenzione sono legittime e quali no?

Oggi possiamo dire una cosa sola, con amarezza:

Questa famiglia ha sacrificato la propria privacy inutilmente.
Si è esposta per proteggere i figli, sperando di evitare la separazione.
Ha mostrato l’intimità della propria vita a un Paese intero.
E oggi l’Italia sa come mangiano, dove dormono, come si lavano, dove vanno in bagno.

Ma questo non è servito.
Non è bastato.

E i bambini, ora, sono lontani dalla loro casa, dalla loro foresta, dai loro ritmi, dagli odori e dai sapori del loro mondo.

C’era una volta una famiglia nel bosco.
E oggi quella storia finisce in una comunità, in nome della sicurezza e della normalizzazione.

Una storia che interroga tutti noi su cosa significhi davvero proteggere un bambino — e su quanto siamo disposti a tollerare scelte di vita che mettono in discussione l’idea unica, dominante, di “normalità”.

In allegato:

Lettera aperta alle isituzioni

Comunicato stampa

Lettera aperta alle istituzioni caso Famiglia nel bosco

Comunicato stampa su Famiglia nel bosco

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Elia Del Grande: La denuncia di un internato e il fallimento della legge

Diritti alla Follia · 18/11/2025 · Lascia un commento

Di Maria Rosaria D’Oronzo

 La vicenda di Elia Del Grande, autore della “strage dei fornai” del 1998, è la drammatica verifica sul campo dei principi no-psichiatrici di Giorgio Antonucci. La sua fuga da una Casa di Lavoro (2025) e le lucide comunicazioni mediatiche hanno trasformato un atto di evasione in una denuncia pubblica contro la coercizione istituzionale.

La sua accusa è netta, e risuona come un monito antipsichiatrico: le Case di Lavoro sono “i vecchi OPG travestiti” dove si vive nell’abbandono.

Del Grande fu condannato a 30 anni, ma il riconoscimento della semi-infermità mentale ha innescato il doppio binario, un sistema criticato come struttura di controllo sociale mascherata da legge (Antonucci, Szasz e altri). Scontati circa 26 anni, è scattata la misura di sicurezza detentiva (Casa di Lavoro) a causa della persistente pericolosità sociale legata al suo processo di condanna.

Questo passaggio dal tempo certo al tempo indefinito è il nucleo della sua protesta. Del Grande lamenta:

“Io sono stato condannato ad anni 30… mi sono ritrovato nuovamente peggio di un detenuto… ho visto non considerato il mio impegno lavorativo. Le case di lavoro oggi sono delle carceri effettive… chi è sottoposto alla casa di lavoro non è un detenuto, bensì un internato, ovvero né detenuto, né libero.”

L’essere un internato significa l’assenza di benefici e l’essere sottoposto a sole proroghe semestrali. Questa negazione della pienezza dei diritti di cittadinanza e della libertà ripropone il tema centrale di Antonucci: la dignità umana e la capacità giuridica devono essere premesse di qualsiasi percorso, non un premio da guadagnare sotto coercizione.

Il legame di Del Grande con la psichiatria è il motivo legale della sua detenzione e la prova del fallimento etico delle strutture. Le Case di Lavoro, destinate ai soggetti semi-infermi di mente, dovrebbero offrire un percorso curativo. Invece, Del Grande accusa:

“… la terapia, chiaramente psicofarmaco, viene data in dosi massicce a chiunque senza problemi. L’attività lavorativa esistente è identica a quella dei regimi carcerari.”

Questa è la realizzazione della critica antonucciana agli psicofarmaci: usati come strumento di controllo e sedazione di massa, volti a quietare l’individuo anziché favorire il dialogo e l’espressione autentica. La psichiatria è ridotta a mero controllo chimico.

 Il ritorno coatto alla Casa di Lavoro ha cancellato il suo faticoso percorso di reinserimento (lavoro, compagna, autonomia), la vera prova, per Antonucci, di guarigione e reinserimento sociale:

“Avevo ripreso in mano la mia vita… tutto questo svanito nel nulla per la decisione di un magistrato di Sorveglianza… [che mi ha] riproponendomi soltanto la realtà repressiva carceraria, anzi quella delle case lavoro è ben peggio”.

La denuncia di Del Grande trova tragica conferma nella ricerca della Società della Ragione (“Un ossimoro da cancellare”, Menabò 2024).

Il paradosso è evidente: si continua a restare chiusi in cella, senza programmi, senza lavoro, senza prospettive.

A sentire i racconti degli stessi internati, il lavoro non solo è assente: è inesistente. Nulla, o quasi nulla, viene proposto.

La misura di sicurezza si svuota del suo senso originario – prevenire, rieducare – e diventa pura afflizione.

Questo sistema in cui l’etichetta prevale sul fatto e sul percorso rieducativo è l’antitesi della dignità umana.

La vicenda si allinea perfettamente alla critica radicale che ha portato alla stesura della CRPD e alle denunce del CPT:

CEDU (Art. 3 e 5): L’assenza di cura efficace e la detenzione indefinita sono la negazione della dignità e configurano un trattamento degradante. La detenzione, basata su una pericolosità che il sistema non rimuove, mette in discussione la legittimità della privazione della libertà.

CRPD (Inclusione e Autonomia): La detenzione coatta e la perdita del lavoro sono la negazione del diritto all’autonomia e all’inclusione sociale (Art. 19).

Conclusione: Il caso Del Grande è la dimostrazione che il sistema delle misure di sicurezza è ancora un apparato di coercizione e abbandono, ben lontano dal dialogo e dal rispetto di Giorgio Antonucci. La sua fuga è la disperata richiesta di un internato di essere riconosciuto come cittadino con diritto alla libertà, alla cura autentica e alla dignità, principi che sono stati negati dalle stesse istituzioni che avrebbero dovuto riabilitarlo.

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Quando l’idealismo porta dritto in galera

Diritti alla Follia · 29/10/2025 · Lascia un commento

Di Gigi Monello

Come ben sanno garlascomani, criminologi per hobby, patiti dell’horror e videodipendenti, “Errare humanum est”. Dopo 17 anni e tre gradi di giudizio, una Procura della Repubblica ha rimesso tutto in discussione su “Garlasco”: forse in carcere è finito un innocente. Forse. La cosa ha messo a rumore mezza Italia e gli appuntamenti fissi in Tv sono trionfi di audience.
Con rumore più modesto, sabato 18 ottobre, a Lecce, la Polizia di Stato ha prelevato e condotto in carcere Gabriella Cassano, un avvocato. Si è così chiuso il lungo iter giudiziario che aveva al suo centro la figura di Marta Garofalo Spagnolo e sullo sfondo il sempre più – a dir poco – inquietante istituto della Amministrazione di sostegno. La Cassano è stata condannata – in via definitiva – per avere, in concorso con il suo compagno Fabio Degli Angeli ed altri, circonvenuto, sottratto, sequestrato e abbandonato un incapace; la citata Garofalo, all’epoca dei fatti ventisettenne.

Marta Garofalo Spagnolo nasce nel 1991 da una relazione occasionale e vive infanzia e fanciullezza presso i nonni materni, in un quadro familiare di ristrettezze, degrado e assenza di stimoli: non ha mai conosciuto suo padre e intrattiene con la madre (Spagnolo) un rapporto discontinuo e spesso conflittuale. Con la morte del nonno Ercole la situazione si deteriora ulteriormente. Nel 2010, quando ha 19 anni e sta frequentando il Liceo Pedagogico Siciliani di Lecce, chiede alla madre di conoscere l’identità di suo padre, e saputala, va a trovarlo e gli rivela di essere sua figlia: i due parlano, si rivedono, comincia una frequentazione. Il padre naturale (Garofalo) manifesta l’intenzione di riconoscerla legalmente.

L’aver passato gli anni cruciali della sua formazione in una situazione di vuoto di riferimenti affettivi forti, ha, però, segnato profondamente la personalità di Marta, che, come due successive perizie psichiatriche stabiliranno, soffre di un “lieve/moderato deficit cognitivo”, che è conseguenza della deprivazione affettiva e socio-culturale in cui è cresciuta. Il che significa che non è un soggetto incapace di intendere e di volere, ma “indebolito”; cosa che in teoria lascia prospettive di recupero indefinibili.
Le tensioni familiari intanto non cessano: disturbi fisici e momenti depressivi inducono Marta a chiedere aiuto ai Servizi sociali del suo Comune. È il passo fatale: i medici prescrivono psicofarmaci; ma lei, dopo averli sperimentati, comincia a fare resistenza; non vuole assumerli, afferma che quando lo fa si sente meno sveglia. I Servizi sociali, a questo punto, la segnalano al Giudice tutelare chiedendo la nomina di un Amministratore di sostegno. La Legge che nel 2004 – con travolgente successo di numeri – è stata introdotta in Italia, consente questa soluzione “prêt-à-porter”.
Marta – che di lì a poco conseguirà il diploma – continua a vedere suo padre, che conferma di volerla riconoscere. Per questa ragione, ma anche al fine di impedire la nomina di un Amministratore, il Garofalo, su consiglio di Degli Angeli (suo conoscente), si affida all’Avv. Cassano. Il 17 febbraio 2011, davanti al Giudice, Marta dichiara,

“Non ho bisogno di un amministratore di sostegno con mia nonna litigo spesso perché spesso mi manda a dire cose a mia madre e questo non mi va. Esco con mio padre Garofalo Luigi, mi reco a Carmiano dove mi incontro con delle amiche in casa loro: Margherita e Marietta. Frequento il Liceo Psicopedagogico a Lecce. Mi hanno prescritto una terapia farmaceutica in compresse e gocce ma non la voglio assumere perché quando non la assumo sono più sveglia”.

Tutto invano: inspiegabilmente ignorata un’istanza di perizia psichiatrica, nel luglio 2011 viene nominato l’Amministratore (un avvocato); e nell’ottobre dello stesso anno Marta entra in una “Struttura” (vengono amenamente definite “case-famiglia”). Nel gennaio del 2012, la prima fuga: si fa 4 km a piedi e raggiunge, in un paese vicino, la casa di uno zio; che avvisa i Carabinieri. Da questo momento, fughe e tentativi di liberarsi si susseguiranno nel tempo.

La situazione si trascina per anni: tra contatti sempre più impediti, tensioni, contrasti, contestazioni, battaglie legali; il padre continua la sua azione per il riconoscimento legale, mentre Cassano e Degli Angeli, per loro conto, finiscono per affezionarsi e provare pietà per questa infelice disperata – ma anche sdegno per il sistema che la incastra – ; e per determinarsi a fare qualcosa per liberarla. Nell’ottobre del 2017, Marta scappa di nuovo dalla Struttura: i Carabinieri la ritroveranno a otto chilometri di distanza. Nello stesso anno, Garofalo è divenuto anche legalmente padre.

La “partita” intorno alla vita della cittadina italiana Marta Garofalo Spagnolo approda ad un passaggio cruciale nel gennaio 2018.
Decisi a presentare istanza per la revoca – o, in alternativa, la sostituzione – dell’ Amministratore di sostegno, allo scopo di sottrarla a prevedibili pressioni che potrebbero distoglierla da qualcosa che ha sempre manifestato di desiderare (essere libera), Degli Angeli e Cassano compiono un pericoloso azzardo: il 14 gennaio si recano in visita presso il reparto psichiatrico dell’ Ospedale leccese dove Marta si trova provvisoriamente; e la fanno allontanare con loro. L’interessata firma la richiesta di revoca/sostituzione dell’AdS: nel caso la decisione si dovesse orientare verso la sola sostituzione, il primo nome proposto è quello di S., una vecchia amica di Marta; in seconda battuta la Cassano propone se stessa.
Il 25 gennaio si svolge l’udienza: il Giudice ordinario è, però, assente, e il supplente, vistane la delicatezza, preferisce congelare la cosa sino al rientro del collega. Durante l’udienza, in aula entra un agente di Polizia che consegna alla Cassano e a Marta una convocazione in Procura. È stato aperto un fascicolo penale. Pochi giorni dopo, il Giudice titolare rigetta il ricorso e riaffida la ragazza alla struttura e all’Ads in carica.

Naturalmente, per i “rapitori” Cassano-Degli Angeli le cose prendono a mettersi male. Il PM che indaga sulla scomparsa di Marta, li accusa di sottrazione, sequestro, abbandono e circonvenzione di incapace. Per qualche tempo vengono trattenuti in stato di arresto.

Ciò che li “inguaia” definitivamente è l’incidente probatorio del 3.7.18, durante il quale “la circonvenuta” fa esternazioni – siamo a 6 mesi di distanza dai fatti – che accreditano le ipotesi dell’Accusa: prende le distanze dagli amici liberatori: “mi hanno presa dall’ospedale senza l’autorizzazione dei medici” (in precedenza, al PM aveva detto: “me sono scappata dall’ospedale, è vero; però non ho fa… non ho ammazzato nessuno”); rivede la sua valutazione sull’ AdS, cui ora dice di volere “tanto bene che la chiamo pure mamma”; rimarca l’imprudenza dei Cassano-Degli Angeli: “Fabio e Gabriella non avevano capito che io senza farmaci non riuscivo a stare per troppo tempo”.

Questa ed altre prove portano il Giudice di primo grado a decidere per la condanna: 4 anni e sei mesi ciascuno. Naturalmente ricorrono. Ma anche il Giudice d’Appello giunge alle stesse inesorabili conclusioni (con “certezza granitica”): quando vanno a trovarla in ospedale per farla uscire, la ragazza non è capace di autodeterminarsi e dunque l’agire degli imputati è una manovra dolosa tesa a suggestionare una persona inabile a comprendere la realtà; e soprattutto a resistere ad una altrui volontà che le appaia solida e rassicurante.
Il movente del disegno criminoso? È evidente: “unico e precipuo” scopo dei due, era quello di “ottenere la nomina della Cassano quale amministratore”; e ciò al fine di poter gestire le disponibilità economiche della assistita.

Tutto chiaro? Ho voluto leggere integralmente le motivazioni della sentenza di condanna in appello: è un testo ampio, articolato, dettagliato, ricco di riferimenti dottrinali e scientifici; 74 fitte pagine di argomentazioni ben scritte, elaborate, organizzate.
Eppure, terminata la lettura, non ho potuto fare a meno di provare un senso di sospensione. E mi è tornato in mente un mio conoscente, il barista che per buoni vent’anni mi ha servito la colazione nel bar sotto casa; un artista del disegno sulla schiuma del cappuccino; uno dal curriculum scolastico breve (un primo anno di superiori) ma dal “discorso lungo”; Luca, un uomo comune; ma con una qualità che, in vent’anni d’ascolto, mi si era fatta sempre più chiara: un fiuto spontaneo per l’illogico, Momento! … la cosa non mi quadra. Questa la sua tipica uscita.

Studiare una vicenda giudiziaria è un lavoro temibile: lunghi lassi di tempo, molti protagonisti, accumularsi di infiniti dettagli, interpretabilità delle situazioni, versioni divergenti, ambiguità, imbrogliarsi delle cose. Non invidio Giudici e Avvocati: c’è spesso di che sviluppare un mal di testa.
Qualcosa che non quadra nella sentenza d’appello? Possibile. Isoliamo soltanto tre cose :

1) La ragazza viene, di volta in volta, definita, “soggetto altamente suggestionabile”, “altamente vulnerabile”, “influenzabile”, “manipolabile”; in una condizione di “inferiorità psichica” e “dipendenza”; incline “ad affidarsi ciecamente e totalmente a chiunque le garantisse, o anche solo promettesse, attenzione e cura”.
Ma se una persona è strutturalmente così, non è ragionevole supporre che resti così, chiunque sia il soggetto che ha di fronte? (amici, avvocati, medici, pubblici ministeri, poliziotti, infermieri, gestori di case-famiglia, giudici, etc etc). È sufficiente che chi le sta davanti appaia forte, “vincente” e “dispensatore di sicurezza”.

Se questo è vero, allora per capire cosa vuole veramente Marta, bisognerebbe tenere conto solo di quel che fa quando è sola; cioè quando fugge senza portarsi dietro gli psicofarmaci.
Ed ora una domanda spontanea: niente niente, realizzato che gli “altri” erano dei perdenti (addirittura nei guai), Marta si è riposizionata per compiacere i soli che potevano ancora proteggerla?

2) Il movente dei rei sarebbe la volontà di appropriarsi delle disponibilità economiche della Garofalo: la sentenza le specifica: Marta dispone, mensilmente, di 250 euro di pensione di invalidità civile e di 500 di indennità di accompagnamento; su un libretto postale a suo nome sono poi depositati 9000 euro. Dei due principali attori di questo giudizio, uno fa l’avvocato, l’altro ha un posto in ditta (la falegnameria di famiglia): si sarebbero esposti a gravi conseguenze materiali, allettati da questo patrimonio e dopo anni di preparativi?
Anche qui una domanda spontanea: niente niente, avessero, “i rapitori”, agito con lauta dose di temerarietà, ma per puro idealismo?

3) Unico scopo di uno dei condannati era farsi attribuire il ruolo di AdS. Ma se si ripassano le fitte fitte 74 pagine, si scopre che nell’istanza al Giudice tutelare, questa unicità non esiste: prima di indicare se stessa come nuovo gestore di quel po’ po’ di patrimonio, la Cassano dà precedenza – nell’ordine – a : 1) la revoca; 2 ) la nomina della amica S.
Ancora una domanda spontanea: niente niente, non coltivasse, l’avvocata, alcun basso interesse personale?

Dice un vecchio adagio della Civiltà giuridica anglo-sassone che per condannare qualcuno si deve raggiungere quella condizione mentale consistente nel trovarsi al di là di ogni ragionevole dubbio. È successo, in questo caso? Decida il lettore.

Un ultimo dettaglio: il 3 novembre 2022 Marta Garofalo si è suicidata in Struttura, ingerendo una massiccia dose di psicofarmaci. Infarto fulminante. È fuggita per l’ultima volta. Senza che nessuno la influenzasse.

http://iscolla.blogspot.com/2025/10/quando-lidealismo-porta-dritto-in-galera.html

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