Di Susanna Brunelli
Susanna, ESP – Esperta per Esperienza, con questo testo solleva una critica radicale e pone una domanda cruciale sulla psichiatria contemporanea: di quale “cura” stiamo realmente parlando?
C’è un momento, nella vita di chi attraversa la sofferenza psichica, in cui la parola “cura” smette di suonare rassicurante e inizia a pesare.
Ho conosciuto da dentro il mondo della psichiatria: prima come familiare, poi come diretta interessata. Ho imparato a riconoscere i silenzi, le paure e le speranze di chi vive quel confine sottile tra diagnosi e identità.
Nel corso degli anni, ho notato come spesso si descriva la salute mentale soltanto come una questione di accesso alle cure. Tuttavia, la domanda che mi accompagna è un’altra: di quale tipo di “cura” stiamo parlando?
Perché, se è vero che gli psicofarmaci possono offrire un sollievo momentaneo o una certa stabilità, è altrettanto vero che non possono essere la risposta al disagio esistenziale.
Troppe volte ho visto la “cura” trasformarsi in un confine.
Quando il farmaco diventa lo strumento in cima alla piramide, la persona rischia di scomparire dietro la diagnosi — diagnosi che spesso cambia come se fosse un’opinione.
Le sofferenze, nella maggior parte dei casi, nascono da relazioni interrotte, ambienti ostili, disarmonie diffuse, vite che chiedono ascolto più che aggiustamenti chimici.
Ho sentito una frase che mi risuona molto:
“Non ci sono cure da fare, ma problemi da risolvere.” — Dott. Giorgio Antonucci
Non si tratta di negare l’utilità dei farmaci, ma di riconoscerne i limiti.
Un antidepressivo può calmare l’angoscia, ma “toglie il sentire”.
Un antipsicotico può ridurre le voci, ma non restituisce senso a chi sta cercando di esprimere qualcosa di indicibile.
Le benzodiazepine possono aiutare in un momento in cui l’ansia ti attanaglia, ma rischiano di fare l’effetto opposto se usate a lungo termine.
Si sta confondendo il curare con l’aggiustare, la salute con la conformità.
La vera cura passa attraverso la possibilità di essere ascoltati senza il timore di andare incontro al peggio se ci si apre a chi dovrebbe aiutarti.
Forse è il momento di analizzare il termine “cura” e di mettere sotto processo gli psicofarmaci.
Non per condannarli, ma per liberarli dall’impossibile ruolo di sostituire l’umanità con la chimica.
Si parla molto di diritto alla salute, ma che senso ha la cura se questa non equivale a far stare bene?
Perché non rispettare le persone, anche con le loro vulnerabilità, caratteristiche e talenti?
Perché ci spaventa la vulnerabilità?
Siamo esseri umani. Tutti possiamo vivere momenti di crisi, di limite, di rottura, di protesta. La risposta, però, non può essere sempre la medicalizzazione.
Anche la tristezza e lo smarrimento hanno un loro significato.
Perché etichettarli subito come patologia?
Esiste una connessione profonda tra salute mentale, sentimenti, pensieri ed emozioni — tra il nostro stato interiore e le relazioni che viviamo.
Eppure, tutto dev’essere “gestito”, “contenuto”, “sanitarizzato”: come se l’emotività fosse una malattia.
Come ESP, sento fortemente l’urgenza di riportare al centro il contenuto umano ed esistenziale delle persone.
Le numerose persone che ascolto mi parlano di come vorrebbero trovare canali alternativi a quelli tradizionali, poiché l’insoddisfazione aumenta con il passare del tempo dall’inizio dei trattamenti e dalla presa in carico ai servizi.
Ancora oggi ci si limita a contenere, a riparare, a “gestire”, ma non si va alla radice.
Quando porto questi temi alla luce, spesso non risulto “empatica”, ma “antipatica”.
Perché mi rifiuto di restare in superficie. Voglio dar spazio alla protesta.
Io quella melma l’ho guardata. Ci sono scesa dentro.
Ho sentito l’odore, il disgusto, l’amaro delle cose che sembravano accettabili ma non lo erano affatto.
E ho capito che, per uscirne, bisogna stare nel dolore — non fuggirlo, non addormentarlo, non sopprimerlo.
Conferenze, articoli, congressi… Tutto interessante.
Ma nel frattempo, le persone continuano a soffrire e a morire.
Corpi che si ammalano, sottoposti agli effetti causati dagli psicofarmaci, perché assunti per periodi indefiniti e infiniti — ignorati, sottovalutati, taciuti.
Senza amore, senza pazienza, senza la volontà di ascoltare davvero, la cura diventa un atto di protocollo, un esercizio di medicina difensiva.
Ma niente che assomigli davvero a qualcosa che faccia stare bene.
I sintomi parlano. Parlano della nostra anima, della nostra storia, delle relazioni che ci hanno ferito.
Chi non ha mai vissuto un momento difficile nella propria vita?
Emozioni forti, pensieri distruttivi, desiderio di fuggire, di sparire…
Invece di mettere tutto a tacere, proviamo ad ascoltare!
Da dove arriva quella rabbia? Quella paura? Quella frustrazione?
Chi si prende cura della sostanza?
Molto spesso ascolto storie come queste:
Ragazze che a 14 o 16 anni hanno già intrapreso una “carriera psichiatrica”.
Una giovane di 21 anni, con perdita di sensi e rovesciamento degli occhi, dopo la somministrazione di un depot neurolettico.
Un ragazzo di 29 anni con disfunzione sessuale permanente da SSRI.
Una donna di 30 anni con acatisia, il corpo trasformato, istituzionalizzata perché divenuta aggressiva dopo i trattamenti.
Chi vive queste storie spesso non ha voce.
I familiari si disperano, non sanno a chi rivolgersi.
E chi dovrebbe aiutarli, troppo spesso, non sa, non ascolta, non vuole sapere, non ha tempo.
Io non credo che la psichiatria abbia solo pazienti in crisi: è essa stessa in crisi.
Ho visto troppe persone stare male nella “cura” — e anche morire di psichiatria.
Lo dico con tutto il peso dell’esperienza, diretta e indiretta.
Forse suonerò tragica, ma preferisco dire la verità che incontro attraverso storie vere, di vita vera.
Anche se disturbante.
Perché è proprio questo il mio intento: scuotere le coscienze.
Possiamo interrogarci sul senso di tutto questo?
Chi decide cosa è bene per l’altro?
Perché gli “esperti”, lo psichiatra, perfino i familiari, pretendono di sapere cosa è giusto per l’altro?
E se invece fosse la persona stessa, con le sue fragilità e le sue risorse, a poter scegliere?
A poter essere ascoltata, compresa, accompagnata?
I sintomi non nascono dal nulla.
Vogliono parlare. Vogliono gridare. Vogliono esprimersi.
Curare chi non è “malato”, ma ferito, significa smettere di classificare e iniziare ad ascoltare davvero.
Perché, se non si cambia prospettiva, gli “assistiti” saranno sempre di più.
Solo chi ha vissuto tutto questo sa davvero di cosa sto parlando.
“Finché si continuerà a curare i sintomi e a promuovere il concetto di squilibrio chimico del cervello, si continuerà a produrre malattia invece che libertà.”