Rassegna, riflessioni e denuncia sulla vicenda di Palmoli
In Italia si parla continuamente di prevenzione.
Prevenire lo stress, prevenire l’esposizione ad ambienti tossici, prevenire le pressioni sociali, prevenire il malessere psicologico che nasce sempre più spesso da ritmi di vita che consumano, schiacciano, logorano.
Eppure – paradossalmente, drammaticamente – chi prova a costruire una forma autonoma di prevenzione viene guardato con sospetto.
Va incontro a controlli, indagini, valutazioni sospensive, fino all’intervento più estremo che un’istituzione possa compiere: l’allontanamento dei figli dal nucleo familiare.
Il caso della famiglia che vive nel bosco di Palmoli, in Abruzzo, è diventato il simbolo di tutto questo.
Il 1° novembre Il Centro pubblica una lettera firmata da Nathan e Catherine:
“Scelta consapevole contro la società tossica”, titolo dell’articolo di Gianluca Lettieri.
Poi, il 5 novembre, L’Indipendente racconta la loro quotidianità:
“Vita nel bosco, senza scuola: per una famiglia è un diritto o un abuso?”.
La loro scelta è chiara:
– vivere lontano dallo stress urbano
– far crescere i figli in mezzo alla natura, con ritmi lenti
– praticare istruzione parentale non standardizzata
– proteggere i bambini da un mondo percepito come troppo veloce, competitivo, disconnesso dai bisogni primari dell’infanzia.
Una scelta argomentata, meditata, coerente.
Eppure, la Procura minorile segnala il caso.
Eppure, arrivano ipotesi di sospensione della responsabilità genitoriale.
Eppure, l’intero Paese sembra chiedersi: quando una scelta alternativa diventa automaticamente un segnale di pericolo?
Questa domanda, per Diritti alla Follia, è centrale:
perché ciò che esce dalla norma viene così rapidamente patologizzato?
Perché libertà educativa e diversità esistenziale vengono trattate come una minaccia?
Dopo giorni di sovraesposizione mediatica, visite di giornalisti, dichiarazioni dei garanti per i diritti dell’infanzia, appelli pubblici e una petizione da 31.000 firme, arriva la notizia che nessuno voleva leggere.
Il Tribunale per i Minorenni dell’Aquila dispone l’allontanamento immediato dei tre bambini.
Secondo Sky TG24, Corriere della Sera e altri quotidiani, l’ordinanza motiva così:
– la casa nei boschi è priva di elettricità, acqua e gas
– esiste un rischio per il “diritto alla vita di relazione” dei minori
– va “osservata la situazione complessiva in una struttura educativa”.
L’ANSA specifica che la responsabilità genitoriale viene sospesa in via esecutiva, con nomina di un tutore provvisorio.
I bambini vengono prelevati la sera, senza auto con sirene, accompagnati da servizi sociali e forze dell’ordine.
La madre può seguirli in comunità; il padre resta solo nel bosco.
Eppure, i genitori respingono qualsiasi accusa di incuria.
Raccontano di bambini sereni, nutriti con cibo autoprodotto senza additivi, abituati a lavarsi con acqua di sorgente, educati senza violenza e senza schermi.
Rivendicano l’unschooling come scelta pedagogica riconosciuta.
L’avvocato Giovanni Angelucci annuncia ricorso, denunciando errori nell’ordinanza, tra cui la contestazione di un attestato di idoneità già convalidato per l’istruzione parentale.
Intanto, la loro privacy è ormai distrutta:
giornalisti dentro e fuori casa, telecamere puntate sulle stoviglie, sui letti, sul bagno, sulla dispensa.
Ogni gesto quotidiano osservato, discusso, analizzato.
Una violenza istituzionale che non è stata arginata da niente:
– né dai garanti regionale e nazionale
– né dalle testimonianze dei giornalisti che hanno vissuto con loro
– né dalle migliaia di cittadini solidali.
Oggi, 21 novembre 2025, i giornali informano che i tre bambini sono in comunità, “sotto osservazione”.
Ma osservazione di cosa?
Della loro “normalità”?
Del loro adattamento a un ambiente che non hanno mai conosciuto?
E allora vengono alla mente domande che nessun tribunale sembra porsi:
– Come reagiranno corpi abituati a cibo naturale a pasti con conservanti, farine raffinate, pesticidi?
– Come risponderà un sistema immunitario cresciuto in aria di bosco al contatto con virus e batteri di ambienti chiusi?
– Come vivranno bambini cresciuti senza plastica in stanze piene di materiali sintetici?
– Che effetto avrà un ritmo sonno–veglia dettato dai regolamenti, invece che dalla luce naturale?
Queste non sono domande marginali.
Sono domande che riguardano la prevenzione — quella vera, quella corporea, quella quotidiana — che una famiglia aveva scelto di praticare.
Lo stridore più doloroso emerge confrontando questa storia con un’altra, tremenda.
Il caso di Paolo Mendico
Paolo, 14 anni, muore suicida a settembre 2025 dopo mesi di bullismo documentato.
Il fratello aveva scritto al Governo e al Ministro dell’Istruzione.
La scuola era stata informata.
Nessuna istituzione è intervenuta in tempo.
La prevenzione — quella promessa nei protocolli, nei Piani di Zona, nelle linee guida ministeriali — non ha funzionato.
E oggi, mentre la famiglia di Paolo chiede accesso agli atti per capire cosa sia accaduto davvero, la domanda si impone:
Davvero siamo certi che la famiglia nel bosco sia “la famiglia sbagliata”?
O è semplicemente quella che non rientra nel modello istituzionale dominante?
Da un lato:
una famiglia che sceglie lentezza, natura, relazioni affettive profonde, protezione dai modelli consumistici.
Dall’altro:
un sistema scolastico e sociale in cui un ragazzo di 14 anni può subire violenza quotidiana senza che nessuno riesca ad intervenire.
E allora: dov’è davvero il rischio?
Dove nasce davvero la sofferenza psichica?
Chi decide quali forme di prevenzione sono legittime e quali no?
Oggi possiamo dire una cosa sola, con amarezza:
Questa famiglia ha sacrificato la propria privacy inutilmente.
Si è esposta per proteggere i figli, sperando di evitare la separazione.
Ha mostrato l’intimità della propria vita a un Paese intero.
E oggi l’Italia sa come mangiano, dove dormono, come si lavano, dove vanno in bagno.
Ma questo non è servito.
Non è bastato.
E i bambini, ora, sono lontani dalla loro casa, dalla loro foresta, dai loro ritmi, dagli odori e dai sapori del loro mondo.
C’era una volta una famiglia nel bosco.
E oggi quella storia finisce in una comunità, in nome della sicurezza e della normalizzazione.
Una storia che interroga tutti noi su cosa significhi davvero proteggere un bambino — e su quanto siamo disposti a tollerare scelte di vita che mettono in discussione l’idea unica, dominante, di “normalità”.
In allegato:
Lettera aperta alle isituzioni
Comunicato stampa
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