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Diritti alla follia

Associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico.

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Susanna Brunelli

Processo agli psicofarmaci “Abbiamo confuso il curare con l’‘aggiustare’”

Diritti alla Follia · 07/10/2025 · Lascia un commento

Di Susanna Brunelli

Susanna, ESP – Esperta per Esperienza, con questo testo solleva una critica radicale e pone una domanda cruciale sulla psichiatria contemporanea: di quale “cura” stiamo realmente parlando?

C’è un momento, nella vita di chi attraversa la sofferenza psichica, in cui la parola “cura” smette di suonare rassicurante e inizia a pesare.

Ho conosciuto da dentro il mondo della psichiatria: prima come familiare, poi come diretta interessata. Ho imparato a riconoscere i silenzi, le paure e le speranze di chi vive quel confine sottile tra diagnosi e identità.

Nel corso degli anni, ho notato come spesso si descriva la salute mentale soltanto come una questione di accesso alle cure. Tuttavia, la domanda che mi accompagna è un’altra: di quale tipo di “cura” stiamo parlando?

Perché, se è vero che gli psicofarmaci possono offrire un sollievo momentaneo o una certa stabilità, è altrettanto vero che non possono essere la risposta al disagio esistenziale.

Troppe volte ho visto la “cura” trasformarsi in un confine.

Quando il farmaco diventa lo strumento in cima alla piramide, la persona rischia di scomparire dietro la diagnosi — diagnosi che spesso cambia come se fosse un’opinione.

Le sofferenze, nella maggior parte dei casi, nascono da relazioni interrotte, ambienti ostili, disarmonie diffuse, vite che chiedono ascolto più che aggiustamenti chimici.

Ho sentito una frase che mi risuona molto:

“Non ci sono cure da fare, ma problemi da risolvere.” — Dott. Giorgio Antonucci

Non si tratta di negare l’utilità dei farmaci, ma di riconoscerne i limiti.

Un antidepressivo può calmare l’angoscia, ma “toglie il sentire”.

Un antipsicotico può ridurre le voci, ma non restituisce senso a chi sta cercando di esprimere qualcosa di indicibile.

Le benzodiazepine possono aiutare in un momento in cui l’ansia ti attanaglia, ma rischiano di fare l’effetto opposto se usate a lungo termine.

Si sta confondendo il curare con l’aggiustare, la salute con la conformità.

La vera cura passa attraverso la possibilità di essere ascoltati senza il timore di andare incontro al peggio se ci si apre a chi dovrebbe aiutarti.

Forse è il momento di analizzare il termine “cura” e di mettere sotto processo gli psicofarmaci.

Non per condannarli, ma per liberarli dall’impossibile ruolo di sostituire l’umanità con la chimica.

Si parla molto di diritto alla salute, ma che senso ha la cura se questa non equivale a far stare bene?

Perché non rispettare le persone, anche con le loro vulnerabilità, caratteristiche e talenti?

Perché ci spaventa la vulnerabilità?

Siamo esseri umani. Tutti possiamo vivere momenti di crisi, di limite, di rottura, di protesta. La risposta, però, non può essere sempre la medicalizzazione.

Anche la tristezza e lo smarrimento hanno un loro significato.

Perché etichettarli subito come patologia?

Esiste una connessione profonda tra salute mentale, sentimenti, pensieri ed emozioni — tra il nostro stato interiore e le relazioni che viviamo.

Eppure, tutto dev’essere “gestito”, “contenuto”, “sanitarizzato”: come se l’emotività fosse una malattia.

Come ESP, sento fortemente l’urgenza di riportare al centro il contenuto umano ed esistenziale delle persone.

Le numerose persone che ascolto mi parlano di come vorrebbero trovare canali alternativi a quelli tradizionali, poiché l’insoddisfazione aumenta con il passare del tempo dall’inizio dei trattamenti e dalla presa in carico ai servizi.

Ancora oggi ci si limita a contenere, a riparare, a “gestire”, ma non si va alla radice.

Quando porto questi temi alla luce, spesso non risulto “empatica”, ma “antipatica”.

Perché mi rifiuto di restare in superficie. Voglio dar spazio alla protesta.

Io quella melma l’ho guardata. Ci sono scesa dentro.

Ho sentito l’odore, il disgusto, l’amaro delle cose che sembravano accettabili ma non lo erano affatto.

E ho capito che, per uscirne, bisogna stare nel dolore — non fuggirlo, non addormentarlo, non sopprimerlo.

Conferenze, articoli, congressi… Tutto interessante.

Ma nel frattempo, le persone continuano a soffrire e a morire.

Corpi che si ammalano, sottoposti agli effetti causati dagli psicofarmaci, perché assunti per periodi indefiniti e infiniti — ignorati, sottovalutati, taciuti.

Senza amore, senza pazienza, senza la volontà di ascoltare davvero, la cura diventa un atto di protocollo, un esercizio di medicina difensiva.

Ma niente che assomigli davvero a qualcosa che faccia stare bene.

I sintomi parlano. Parlano della nostra anima, della nostra storia, delle relazioni che ci hanno ferito.

Chi non ha mai vissuto un momento difficile nella propria vita?

Emozioni forti, pensieri distruttivi, desiderio di fuggire, di sparire…

Invece di mettere tutto a tacere, proviamo ad ascoltare!

Da dove arriva quella rabbia? Quella paura? Quella frustrazione?

Chi si prende cura della sostanza?

Molto spesso ascolto storie come queste:

Ragazze che a 14 o 16 anni hanno già intrapreso una “carriera psichiatrica”.

Una giovane di 21 anni, con perdita di sensi e rovesciamento degli occhi, dopo la somministrazione di un depot neurolettico.

Un ragazzo di 29 anni con disfunzione sessuale permanente da SSRI.

Una donna di 30 anni con acatisia, il corpo trasformato, istituzionalizzata perché divenuta aggressiva dopo i trattamenti.

Chi vive queste storie spesso non ha voce.

I familiari si disperano, non sanno a chi rivolgersi.

E chi dovrebbe aiutarli, troppo spesso, non sa, non ascolta, non vuole sapere, non ha tempo.

Io non credo che la psichiatria abbia solo pazienti in crisi: è essa stessa in crisi.

Ho visto troppe persone stare male nella “cura” — e anche morire di psichiatria.

Lo dico con tutto il peso dell’esperienza, diretta e indiretta.

Forse suonerò tragica, ma preferisco dire la verità che incontro attraverso storie vere, di vita vera.

Anche se disturbante.

Perché è proprio questo il mio intento: scuotere le coscienze.

Possiamo interrogarci sul senso di tutto questo?

Chi decide cosa è bene per l’altro?

Perché gli “esperti”, lo psichiatra, perfino i familiari, pretendono di sapere cosa è giusto per l’altro?

E se invece fosse la persona stessa, con le sue fragilità e le sue risorse, a poter scegliere?

A poter essere ascoltata, compresa, accompagnata?

I sintomi non nascono dal nulla.

Vogliono parlare. Vogliono gridare. Vogliono esprimersi.

Curare chi non è “malato”, ma ferito, significa smettere di classificare e iniziare ad ascoltare davvero.

Perché, se non si cambia prospettiva, gli “assistiti” saranno sempre di più.

Solo chi ha vissuto tutto questo sa davvero di cosa sto parlando.

“Finché si continuerà a curare i sintomi e a promuovere il concetto di squilibrio chimico del cervello, si continuerà a produrre malattia invece che libertà.”

susi.brunelli@gmail.com

 

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Diagnosi alla psichiatria

Diritti alla Follia · 23/06/2025 · Lascia un commento

A tutte le vittime della psichiatria

Di Susanna Brunelli

Mi chiamo Susanna, sono un’ESP – Esperta Per Esperienza, e molti ormai mi conoscono.

Vivo a Verona e sono nata nel 1963, ma la mia rinascita è avvenuta il 18 marzo 2019. Fin da piccola ho sempre avuto una propensione naturale verso la relazione d’aiuto: mi veniva spontaneo essere disponibile all’ascolto, probabilmente perché spesso non mi sentivo ascoltata. Ero timida, ma anche molto empatica, e trovavo facilmente un modo per entrare in connessione con le persone.

Oltre al mio sapere esperienziale, ho acquisito una certa dimestichezza con la scrittura. Mi risulta più facile che parlare. La scrittura è un ottimo strumento per elaborare i pensieri e trasferirli, dopo aver riflettuto più volte, e possiede anche un potere terapeutico.

Nel 2019, una volta riacquisita la mia autonomia, è nato spontaneo il desiderio di dare un senso a tutto ciò che avevo vissuto di traumatico ed estremamente destabilizzante. Così, ho iniziato a cercare nella mia rete di conoscenze, partecipando a incontri di vario genere—che riguardassero la crescita personale, la formazione e l’informazione.

Nel mio percorso, ho scoperto Mad in Italy (https://mad-in-italy.com/).

Grazie ad alcuni contenuti che pubblicavo sui social per promuovere una maggiore comprensione pubblica, sono stata contattata dagli amministratori di questo portale di informazione scientifica, con i quali attualmente collaboro. Mi impegno anche a coinvolgere altre persone desiderose di raccontare la propria storia di trasformazione, dopo un periodo di sofferenza.

Poi, fortunatamente, ho conosciuto “Diritti alla Follia” (https://dirittiallafollia.it/)

 Dal 2019, faccio parte di questa associazione, che mi ha fatto conoscere la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD) (https://informareunh.it/la-convenzione-delle-nazioni-unite-sui-diritti-delle-persone-con-disabilita/ )e gli aspetti giuridico-legali collegati ai diritti degli utenti psichiatrici.

Chi è e cosa fa un ESP? È un Esperto Per Esperienza o un Esperto in Supporto tra Pari. 

L’ESP è una persona che ha vissuto un’esperienza nel campo della salute mentale e può diventare un Esperto in Supporto tra Pari dopo aver intrapreso un percorso di recovery, ovvero un percorso di consapevolezza e autoconoscenza, e aver attuato un processo di cambiamento nella propria vita. 

Avendo acquisito un “sapere esperienziale”, si mette a disposizione di chi sta attraversando situazioni simili a quelle vissute personalmente. 

Attraverso le testimonianze di “pari”, mi sono fatta un’idea tutt’altro che rassicurante della psichiatria, che porta molte persone all’esasperazione: diagnosi, farmaci e stigma. Un cocktail davvero difficile da smaltire.

In chiave provocatoria, critica ed emotiva, mi sono chiesta: e se fosse io a fare diagnosi alla psichiatria, anziché la psichiatria alle persone? È evidente che molte cose nel sistema non funzionano. Raramente ho riscontrato risultati incoraggianti e non ci sono evidenze di buoni esiti delle cure somministrate, anche se conosco personalmente casi di persone sopravvissute – i “Survivors”.

Dunque, si può dire che la “psichiatria” ha una doppia, anzi tripla personalità: sociale, sanitaria e giuridica. Tuttavia, questi tre elementi non sono allineati tra loro, e ciò crea una disfunzione nel sistema.

Per quanto riguarda i sintomi, direi che presenta un disturbo comportamentale e difficoltà a relazionarsi. Mostra tratti narcisistici che portano alla svalutazione e alla manipolazione. Questo comportamento limita l’autonomia e l’indipendenza dell’individuo. Con un atteggiamento paternalistico, ostacola la libertà d’azione delle persone coinvolte. Molti rimangono vittime di questo sistema, sentendosi intrappolati e incapaci di reagire. Sono stati trattati casi evidenti e documentati: basta visitare il sito dell’associazione e leggere le testimonianze.

Spesso si riscontrano aspetti fortemente contraddittori, accompagnati da un importante disturbo dell’attenzione e scarsa empatia. Usa le diagnosi come un modo per dare un senso alla propria esistenza. Tende a regredire e mostra scarsa attenzione ai bisogni degli altri. Si difende e si giustifica dicendo che mancano risorse economiche, umane e di tempo. A volte vanta, in alcune aree, un’efficienza nella gestione, ma non è chiaro se questa sia altrettanto efficace.

Mostra poca volontà di comprendere le ragioni dei richiedenti aiuto. Le sue credenze limitanti impediscono un’evoluzione adeguata, come ad esempio la convinzione che uno squilibrio chimico del cervello richieda farmaci per tutta la vita, come l’insulina per il diabete. Non crede abbastanza nel recupero e nell’autonomia delle persone. Inoltre, fatica ad analizzare i contesti e ignora i problemi contingenti dei singoli, così come le cause di episodi di sofferenza psichica, esistenziale ed emotiva, specialmente nelle situazioni di carattere psicosociale.

In alcuni casi adotta un linguaggio discriminante e talvolta minaccioso. Utilizza metodi coercitivi, che mascherano la propria incapacità di gestire situazioni urgenti ed emergenziali, senza riconoscere che tali comportamenti sono disfunzionali. Non ha ancora compreso che un dialogo aperto e rispettoso, che escluda pratiche traumatiche come il TSO, la contenzione e la somministrazione selvaggia di psicofarmaci, è la strada per un profondo cambiamento interno.

Può essere che il disturbo che si presenta alteri la percezione della realtà, rendendo difficile il riconoscimento di questa condizione. Di conseguenza, la “psichiatria” potrebbe non essere pienamente consapevole e in grado di riconoscere lo stato di difficoltà in cui si trova.

Per ottenere buoni risultati terapeutici e una maggiore capacità di gestione della situazione, sarebbe opportuno che la “psichiatria” consultasse persone con esperienza diretta nel campo della salute mentale. In qualità di esperti per esperienza, esse possono fornire consigli e indicazioni importanti sui bisogni e le preferenze di chi si trova in situazioni simili di difficoltà.

Inoltre, togliere le resistenze e aprirsi maggiormente con fiducia potrebbe consentire alla stessa di acquisire un punto di vista diverso: una nuova via verso il cambiamento e l’assunzione di responsabilità.

Se essa non comprende cosa significhi esporsi senza disporre di tutti gli strumenti necessari per aiutare qualcuno in condizioni svantaggiate può essere “pericolosa sia per sé che per gli altri”. Questa disfunzionalità può avere esiti devastanti per molte persone.

La psichiatria, se persiste nel non chiedere un aiuto autentico e nel rifiutare il cambio di paradigma come sua cura necessaria, rischia la cronicità.

 Nulla esclude che la diagnosi possa evolversi e essere modificata nel tempo; per questo motivo, la psichiatria va tenuta sotto osservazione e, se necessario, denunciata alle autorità competenti.

Suggerisco di  dare un’occhiata al progetto “UNSILENCE YOUR VOICE” : https://heyzine.com/flip-book/d74f685642.html

susi-brunelli@gmail.com

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LORO NON SANNO…di Susanna Brunelli

Diritti alla Follia · 07/06/2024 · Lascia un commento

English Version: https://dirittiallafollia.it/wp-content/uploads/2024/06/Susanna-Brunelli-THEY-DONT-KNOW.pdf

Sofferenza emotiva, depressione grave, un pazzesco senso di solitudine, separazione dalla mia anima, praticamente un inferno! In questo posto ci sono porte e finestre bloccate, io che mi volevo “liberare” mi trovo rinchiusa in un reparto di ospedale. Un luogo di cura, dicono, devono prendersi cura di me, lo faranno “per il mio bene”!

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

Dall’altra parte della porta…. la mia vita, i miei ricordi, la mia famiglia, i miei gatti, il mio lavoro, la mia casa, la mia macchina, i miei amici, le mie passioni, la mia arte, la mia creatività, il mio sentire, la mia anima …..DIO !

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

E’ un inferno, non fa più differenza tra dentro e fuori….

Questo ambiente dis-abilita, i farmaci dis-equilibrano, il cibo dis-gusta, la condizione dis-arma, la dis-biosi aumenta, il paternalismo dis-istima, il fumo dis- turba.

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

Se il fumo crea disabilità e vere malattie perché devo essere costretta a stare in un luogo di cura e subirlo? Cosa c’è di sanitario in questo luogo se non sono protetta dal fumo passivo e compulsivo di chi non ne può fare a meno, dove uomini e donne approfittano anche del bagno del reparto di psichiatria?

Forse esagero a pensare che in un ospedale non dovrebbe succedere tutto questo? Ma io non posso accettare neanche un soffio di nicotina in un ambito sanitario, IO, che non tollero il fumo che non ho mai fumato e mai fumerò, l’unico caso in cui trovo appropriato l’uso del termine “MAI”!

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

È PARADOSSALE! Io non fumo, ma li potrei imparare a farlo …NO! Mai e poi mai …IO ODIO IL FUMO…. DETESTO IL FUMO… non sopporto il FUMO….Eppure li si fuma… ma non  lo posso evitare ! Il luogo è chiuso, si sente l’odore di fumo, ho detto FUMO?

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

E il fumo non crea disabilità? Ma che domanda stupida, le persone lì dentro sono considerate già DI-ABILI, che importa!

Questa è una prigione, è tutto sbarrato. Se non bevo le “goccine”, arriveranno a farmi la “puntura”, tra le due il meno peggio, non c’è via di scampo qui dentro.

Cosa c’è di sanitario nell’ essere costretti a mandar giù delle sostanze che ti rendono inerte?

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

IO  OOOODIO LE PUNTURE, IO OOOODIO I FARMACI, IO OOOODIO IL FUMO, IO OOOODIO LA PSICHIATRIA ! OHHHHH MIO DIO!

Ho il terrore di lavarmi e a venire a contatto con l’acqua, ma il bagno non è per niente incoraggiante, è tutto brutto e il box doccia cade a pezzi…. Non ho diritto di segnalare che il box doccia è rotto? Non ho diritto di respirare aria pulita e mangiare cibo salutare?

‘Non siamo in un hotel 5 stelle’ mi viene detto, allora io sono una persona che merita zero stelle?

Quanto stigma c’è in questa frase?

‘Non siamo in un Hotel 5 stelle…..non siamo in un hotel 5 stelle… non siamo in un hotel 5 stelle ….’ Parole che risuonano nella mia testa come il rumore del carrello che porta a tutti, proprio tutti, le medicine anche se le rifiuti.

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

Si preoccupano solo che tutto sia sotto controllo; non si deve sentire, non si deve vedere, neanche ascoltare, tutto viene anestetizzato, attutito.

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

Dicono che lo squilibrio chimico del cervello crea la malattia, ma quale squilibrio chimico? Quale malattia? Io ho uno squilibrio dei pensieri, delle mie emozioni! Ho dei problemi da risolvere! Non so come fare là fuori, per questo sono dentro, il mio desiderio di morire equivale al desiderio di vivere, per questo sono qui.

L’inferno non è un luogo dove si possono manifestare i propri diritti, tanto meno farli rispettare. Non hai neanche voglia di farli rispettare, niente e nessuno ti incoraggia a farlo e la condizione ti rende dis – abile.

Loro non sanno cosa significa per me stare qui dentro!

Il mio forte disagio altera la mia percezione?  La mia percezione è la mia realtà e il trauma rimane uno sgradevole ricordo, come una macchia di caffè su una camicia bianca pulita.

Loro non sanno cosa ha significato per me stare là dentro!

Chi protegge il mio diritto alla salute?

Chi mi protegge quando non sono in grado di farlo da me stessa?

C’è una convenzione delle Nazioni Unite che spesso non viene rispettata.

Susanna Brunelli susi.brunelli@gmail.com

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