LA SISTEMATICA VIOLAZIONE DELLA “CONVENZIONE ONU SULLA DISABILITA’” E LE NECESSITÀ FORMATIVE ED INFORMATIVE A BENEFICIO DEI GIUDICI TUTELARI
Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità : segnalazione criticità – necessità formative ed informative a beneficio dei giudici tutelari –
al Presidente della Repubblica Italiana
PROF. SERGIO MATTARELLA
- al Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura
DOTT. DAVID ERMINI
- ai giudici tutelari
LORO SEDI
- ai Presidenti dei Tribunali
LORO SEDI
e p.c.
- al Comitato Onu sui diritti delle persone con disabilità
- a Istituzioni ed Enti internazionali operanti per la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona
- al Ministro per la disabilità
DOTT.SSA ERIKA STEFANI
- all’ Osservatorio nazionale per la disabilità
- all’Ufficio disabilità del Governo
Pregiatissimo Presidente della Repubblica, Illustri Destinatari
Ci pregiamo di inviare la presente missiva al fine di segnalare la sistematica violazione dei diritti fondamentali sovente consumata nell’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Sottoponiamo alla Vostra attenzione l’allegato documento, teso ad evidenziare e dettagliare le molte “criticità” che riteniamo di rilevare nel modus operandi dei giudici tutelari, in particolare rispetto all’applicazione dell’istituto in parola nei confronti dei portatori di disabilità psicosociale.
I principi sanciti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (c.d. CRPD) sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 (ratificata con legge 3 marzo 2009, n. 18) ci appaiono con evidenza poco o nulla considerati nelle prassi dei giudici tutelari, forse anche per scarsa conoscenza di detti principi: non a caso il Comitato delle Nazioni Unite preposto al monitoraggio dell’applicazione della Convenzione nelle sue “Osservazioni conclusive al primo Rapporto sull’Italia” (30 luglio 2016) ha raccomandato al nostro Paese di svolgere una adeguata attività formativa, in relazione ai rivoluzionari principi della Convenzione, a beneficio del personale giudiziario.
A cinque anni di distanza dalle “Osservazioni” del Comitato delle Nazioni Unite, al quale la presente é diretta per conoscenza, chiediamo:
- per la Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura: di mettere in atto ogni iniziativa utile ad un’ adeguata attività formativa a beneficio dei giudici tutelari, relativa ai principi introdotti dalla CRPD e funzionale a consentire che l’amministrazione di sostegno rientri entro i binari della legalità internazionale e nazionale (non è inutile segnalare, a riguardo, che la frequentissima attribuzione alla Magistratura Onoraria della responsabilità di ricoprire l’ ufficio del Giudice tutelare mal si accorda con la delicatezza dei diritti fondamentali in gioco, specie sulla base della “latitudine” assunta dai decreto di nomina degli amministratori di sostegno con riguardo al contenuto dei poteri a questi ultimi attribuiti);
- per i giudici tutelari: di esercitare il proprio ruolo in accordo ai principi della CRPD relativi alla salvaguardia dei diritti fondamentali dei portatori di disabilità psicosociali, in ossequio alle indicazioni contenute nelle “Osservazioni conclusive al primo rapporto sull’ Italia”;
- per i Presidenti dei Tribunali: di svolgere un opportuno ruolo di monitoraggio e controllo del rispetto da parte dei giudici tutelari, nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno e nei rapporti con le persone con disabilità, dei principi costituzionali e internazionali direttamente rilevanti in materia.
La scrivente Associazione Radicale Diritti alla Follia sta elaborando un dossier per segnalare e descrivere in modo puntuale al Comitato delle Nazioni Unite l’allarmante situazione italiana in relazione alla mancata garanzia dei diritti fondamentali delle persone in condizione di disabilità psicosociale, anche ma non solo in rapporto alle prassi relative all’amministrazione di sostegno. In tale dossier confluiranno la descrizione e la valutazione dell’attività del Consiglio Superiore della Magistratura sul tema.
Saremmo lieti e onorati di potere avere una interlocuzione diretta per approfondire i temi esposti, in un contesto in cui peraltro la scrivente Associazione (impegnata anche nell’elaborazione di un progetto di riforma legislativa) è destinataria di centinaia di segnalazioni relative alle criticità esposte ed è in grado di documentare le singole affermazioni contenute nell’ allegato documento.
Vogliate gradire i nostri migliori saluti.
Per l’ Associazione Radicale “Diritti alla Follia”
Cristina Paderi (Segretaria)
Alessandro Negroni (Presidente)
Michele Capano(Tesoriere)
LA SISTEMATICA VIOLAZIONE DELLA “CONVENZIONE ONU SULLA DISABILITA’” E LE NECESSITÀ FORMATIVE ED INFORMATIVEA BENEFICIO DEI GIUDICI TUTELARI
(giugno 2021)
Presentazione
Il presente documento contiene la descrizione del concreto funzionamento dell’istituto dell’amministrazione di sostegno in Italia, con il dichiarato scopo di segnalare talune criticità nel modus operandi dei Giudici Tutelari italiani.
Tale lavoro è stato possibile giacchè l’Associazione Radicale “Diritti alla Follia” è quotidianamente destinataria di segnalazioni a riguardo, in ossequio ai propri scopi statutari diretti alla salvaguardia dei diritti fondamentali dei portatori di disabilità psicosociali, ai quali ultimi va quindi indirizzato un doveroso ringraziamento.
La disamina è dedicata:
- Al “necessario” e conclamato (quanto ignorato) “impatto” della Convenzione ONU per il diritti dei “disabili” (CRPD) sugli istituti civilistici di “protezione” della persona;
- all’abusiva“ latitudine” assunta dall’istituto, chiamato in causa in molti casi nei quali potrebbe farsene a meno, con netto aggravio della qualità delle vita di quanti vi sono coinvolti come “beneficiari” o familiari;
- alla descrizione delle prassi illegali affermatesi con specifico riguardo all’amministrazione di sostegno affidata dal Giudice tutelare ad un professionista “esterno” e relative:
- al mancato ascolto personale del potenziale“beneficiario” da parte del Giudice tutelare;
- alla mancata ricerca e valorizzazione delle preferenze personalmente espresse dal“beneficiario” dell’ADS, da perseguirsi – all’opposto – anche nel caso di opposizione alla nomina di un ADS, di situazioni di “conflitto” familiare, nonché di limitata o assente capacità di comunicazione del “beneficiario” stesso:
- all esame della “vita” concreta dell’ istituto, sempre in rapporto ai casi di affidamento della responsabilità ad un ADS “esterno”, allo scopo di evidenziare:
- l’ indebita nascita della “professione dell’ amministratore di sostegno”, con i corollari rappresentati:
- dalla lievitazione del numero di “beneficiari” per un singolo ADS, a tutto detrimento dell’efficacia dello svolgimento della funzione, e della naturale gratuità della stessa;
- alla deriva “affaristica” che ha assunto l’esercizio della funzione di ADS, con la conseguente realtà della continua “caccia” a nuovi potenziali beneficiari:
- il concreto cattivo “funzionamento” dell’ADS per gli “utenti” della stessa: “beneficiario” e familiari ed amici dello stesso, con riguardo in particolare:
- alla contrarietà ai diritti fondamentali della persona delle tecniche messe in campo da ADS e Giudice tutelare per limitare le possibilità di essere “disturbati”: dalla “secretazione” degli atti della procedura fino all’isolamento e/o all’ istituzionalizzazione della persona ed alla “criminalizzazione”, stricto sensu intesa, dei tentativi di sollecitare ad una migliore gestione dell’amministrazione stessa;
- al disastro finanziario che la conflittualità “endemica” in tali forme di amministrazione di sostegno, in cui gli unici “tutelati ”finiscono per essere il Giudice tutelare e l’ ADS, rappresenta per quanti vi siano coinvolti in qualità di “utenti”.
I. IL PROGRESSIVO IMPATTO DELLA CRPD SUGLI ISTITUTI CIVILISTICI DI “PROTEZIONE DELLA PERSONA”
La “Convenzione ONU per i diritti dei disabili” (cv. CRPD), approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18) rappresenta – ad avviso dello stesso Governo italiano – “un importante risultato raggiunto dalla comunità internazionale in quanto strumento internazionale vincolante per gli Stati Parti. In questa nuova prospettiva la Convenzione si inserisce nel più ampio contesto della tutela e della promozione dei diritti umani, definito in sede internazionale fin dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 e consolidatosi nel corso dei decenni, confermando in favore delle persone con disabilità i principi fondamentali in tema di riconoscimento dei diritti di pari opportunità e di non discriminazione”.
Al cospetto dei “diritti fondamentali” riconosciuti al “portatore di disabilità” dalla CRPD si è aperto uno scenario nel quale si palesano necessari la riforma ed il “radicale” ripensamento non solo dei tradizionali istituti civilistici di “protezione della persona” e di conseguente limitazione della capacità di agire (quindi la “interdizione” e la “inabilitazione”), ma anche della neonata “amministrazione di sostegno”.
Questa ultima soluzione normativa (senz’altro ispirata dal lodevole, intento di introdurre – tra l’ altro – maggiori salvaguardie degli spazi di autonomia del “beneficiario” rispetto a ciò che accadeva nei confronti dell’ “interdetto” e dell’ “inabilitato”) è “drasticamente” superata dall’emersione e dal consolidamento, sul piano della cultura prima e del diritto poi, delle concezioni consacrate nell’articolato della CRPD.
Tale articolato non consente di confermare la legittimità di “assetti” tali da “organizzare” la vita del “beneficiario” prevedendo la perpetua possibilità per l’ amministratore di sostegno, pur con l’eventuale vigilanza del Giudice Tutelare, di assumere decisioni ed operare scelte “in nome e per conto” del portatore di disabilità.
Prova irrefutabile di ciò è rappresentata dalla circostanza che nelle “Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia”, prodotte il 31 agosto 2016 dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, preposto al “monitoraggio” dell’effettiva applicazione della CRPD da parte dei paesi sottoscrittori, si può leggere tra l’altro (con riferimento allo stato di attuazione nell’ordinamento italiano dell’ art. 12 della Convenzione: “Uguale riconoscimento davanti alla legge” del disabile):
Paragrafo n. 27: Il Comitato è preoccupato che continui ad essere attuata la pratica della presa di decisioni attraverso il meccanismo di sostegno amministrativo “Amministrazione di sostegno”.
Paragrafo n. 28: Il Comitato raccomanda di abrogare tutte le leggi che permettono la sostituzione nella presa di decisioni da parte dei tutori legali, compreso il meccanismo dell’amministratore di sostegno, e di emanare a attuare provvedimenti per il sostegno
alla presa di decisioni, compresa la formazione dei professionisti che operano nei sistemi giudiziario, sanitaria e sociale.
Questo “avviso di sfratto” per le forme – diffusissime – di amministrazione di sostegno cosiddetta “incapacitante” (introdotta dalla giurisprudenza formatasi in materia di amministrazione di sostegno e poi avallata, purtroppo in anni recenti e successivi alla ratifica della CRPD, sia dal legislatore – con l’ art. 3 della legge n. 219 del 2017 – sia dalla Corte Costituzionale – con la sentenza n. 144 del 2019) non rappresenta l’oggetto dell’ allegato documento, ma ne costituisce un utile riferimento introduttivo.
Parliamo cioè di un istituto che è fuori dalla “legalità internazionale”, ma del quale si rappresenteranno le concrete applicazioni contrarie alla pur “claudicante” e superata normativa italiana.
II. LE ROVINOSE ED ABUSIVE “NECESSITÀ” E “FACILITA’’” DELL’IMPLEMENTAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Lo sguardo rivolto all’indietro, cioè all’ideologia della “protezione” dei fragili” in luogo del laico e concreto “supporto al processo decisionale della persona”, ha determinato una “prassi”, pazientemente costruita ed alimentata da un’attività “propagandistica” che sarà meglio spiegata nelle sue ulteriori “ragioni” nel prosieguo del presente lavoro, tale da considerare “indispensabile” il ricorso all’amministrazione di sostegno ogni volta che si manifesti una condizione di difficoltà (o presunta tale) della persona.
Il risultato è che molte problematiche che potrebbero essere affrontate con strumenti più “dolci” ed ordinari all’ interno della famiglia vengono complicate, non risolte, dal ricorso all’ amministrazione di sostegno. Sul punto occorre registrare:
a) l’assoluta mancanza di un idoneo circuito informativo relativo agli effettivi caratteri dell’ADS, per cui “beneficiari” e familiari degli stessi si avvicinano, e spesso ricorrono, alla procedura senza alcuna consapevolezza:né della ‘gravità” intrinseca della stessa (che corrisponde ad una limitazione della capacità di agire dell’interessato);
- né dell’ ”ingranaggio” nel quale si infilano, tale da imporre il “ricorso” (farraginoso e faticoso) al Giudice tutelare per lo svolgimento (col volgere di alcuni mesi) di attività che prima si sarebbero compiute in ore o giorni;
- né dei costi che caratterizzano non solo l’avvio dell’istituto, ma anche e soprattutto il suo svolgimento: con la costante necessità di ricorso ad avvocati per il contatto con il Giudice tutelare (al netto delle “evenienze” connesse alla nomina di amministratori “esterni” ed a necessità consulenziali, sulle quali si tornerà);
- né della pratica impossibilità di liberarsi dell’amministrazione di sostegno una volta che la stessa abbia preso avvio (si tratti di anziani o di portatori di disabilità psicosociali);
b) nella “foga” giudiziale diretta a “facilitare” l’applicazione dell’istituto: la sistematica forzatura delle disposizioni che presiedono all’integrità del “contraddittorio”, o comunque alla necessità del coinvolgimento nella procedura dei parenti entro il quarto grado e degli affini entro il secondo grado. Ci sono casi, riscontrati in modo particolare dove l’ amministrazione di sostegno e l’ ideologia dei “fragili” da proteggere si è sviluppata, per esempio nella città di Trieste, dove la natura “easy” della procedura diretta ad agevolare l’ applicazione dell’ ADS (se “esterna”) ha prodotto la mostruosità giuridica di decreti di fissazione della prima udienza in cui si abilita il ricorrente a contattare per le vie brevi, anche telefoniche, coloro che hanno diritto di costituirsi in giudizio (non si capisce con quale possibilità effettiva di verifica del compimento dell’ incombente da parte del Giudice tutelare).
III. LE PRASSI ILLEGALI CHE CONTRASSEGNANO L’APPLICAZIONE DELL’ ISTITUTO DELL’ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO DA PARTE DEI GIUDICI TUTELARI
Premessa, dunque, la consacrata contrarietà dell’ istituto – nella forma “vivente” che ha assunto – ai diritti fondamentali delle persone con limitata autonomia, siamo a lamentare che anche le inadeguate “regole” che ne caratterizzano l’ applicazione ed il funzionamento siano sistematicamente violate nei Tribunali italiani dai Giudici tutelari investiti della relativa responsabilità, evidentemente nel difetto e/o nell’ assoluta inadeguatezza di quelle attività formative che il Comitato ONU CRPD, ormai cinque anni or sono, raccomandava all’ Italia anche con riferimento ai “professionisti che operano nel sistema giudiziario”. Accade, infatti, che la procedura sia orientata in una direzione esattamente opposta a quel “sostegno alla presa di decisioni” indicato dalla CRPD e dal Comitato ONU, e questo in aperta disapplicazione della normativa codicistica vigente.
A.
IL NECESSARIO ASCOLTO PERSONALE, DA PARTE DEL GIUDICE TUTELARE, DEL POTENZIALE “BENEFICIARIO” DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Si registrano, con incredibile e preoccupante frequenza, provvedimenti di nomina di amministratori di sostegno che non sono preceduti dall’audizione personale dell’ aspirante “beneficiario” (il quale ultimo è in tali casi estraneo allo stesso ricorso).
Tale “prassi” porta altresì il segno di una straordinaria sottovalutazione, da parte del Giudice tutelare, del “peso” (anzitutto emotivo e psicologico) rappresentato per l’ individuo:
a) dalla presa d’ atto della perdita della piena signoria su se stesso e sulle proprie scelte;
b) dal passaggio ad una condizione segnata dallo “schiacciamento” quotidiano ad opera di due figure (ADS e Giudice tutelare) spesso “irraggiungibili” e caratterizzate da un’ immagine (e da una realtà) di “potenza assoluta ed insindacabile” di fronte alla quale la personalità individuale è annichilita.
Questa mancanza di “intelligenza emotiva” rispetto all’ effettiva posta in gioco nella quotidianità della vita dell’ istituto, rispetto alla concreta sofferenza individuale alla stessa connessa, riguarda ovviamente non solo la “nascita” dell’ istituto, ma (come vedremo) ne contrassegna l’ evoluzione e il concreto atteggiarsi.
Occorrerebbe riflettere (oltre che – de iure condendo – sull’ opportunità di affiancare al Giudice tutelare “esperti” in possesso di altre professionalità orientate alla comprensione dei bisogni psicologici degli individui; e – de iure condito – sulla “formazione” anche su questo particolare terreno dei Giudici tutelari stessi) sul sistematico affidamento del ruolo di ADS ad avvocati, commercialisti… laddove il
contenuto dei “decreti di nomina”, ed il significato generale dell’ istituto, vanno ormai ben oltre gli aspetti “patrimonialistici”: il che esige la “messa in campo” di competenze “altre” per un migliore ausilio del “beneficiario”.
B.
LA SCELTA DELL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO IN ACCORDO ALLE INDICAZIONI FORNITE DAL POTENZIALE “BENEFICIARIO”
In perfetta continuità con una “cultura” giudiziale tale da assumere un provvedimento come la nomina di un amministratore di sostegno senza audire il potenziale beneficiario, si registra la sistematica “pretermissione” della volontà di tale “beneficiario” (in molti casi neanche acquisita) nella individuazione della persona investita della relativa responsabilità.
Mentre la disciplina codicistica (art. 408, comma IV c.c.) consente di superare la designazione del beneficiario solo in presenza di “gravi motivi”, è invalsa la prassi (anche nelle ipotesi in cui ci si degna di ascoltare tale “beneficiario”) di infischiarsene bellamente delle indicazioni fornite da quest’ultimo.
1. LA PREFERENZA DA RISPETTARE ANCHE NEI CASI DI OPPOSIZIONE ALL’ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO DA PARTE DEL POTENZIALE BENEFICIARIO
E’ importante chiarire come un Giudice tutelare che intenda esercitare il suo ruolo nel rispetto della Costituzione (ivi compreso l’ art. 117 con riferimento agli obblighi internazionali che incombono sull’Italia a seguito dell’ entrata in vigore della CRPD) deve porsi il costante problema, nel corso della procedura, di salvaguardare la volontà dell’interessato nell’individuazione dell’amministratore di sostegno, anche e soprattutto nei casi, tutt’altro che infrequenti, in cui tale interessato rifiuti il provvedimento limitativo della capacità di agire.
Proprio in quelle evenienze, segnate dal conflitto tra l’autorità pubblica e l’individuo, cui è imposto il “supporto” e vengono limitati i diritti e le libertà, è di importanza vitale che si resti giudizialmente “aggrappati” alla massima misura del consenso acquisibile.
In questo contesto, la prassi che non esiste, da implementare, concerne l’indispensabile acquisizione di una preferenza in ordine alla nomina dell’ ads anche da parte di chi rifiuti l’ads. Il Giudice tutelare deve porre a se stesso ed al beneficiario il problema dell’individuazione in ogni caso di un soggetto che abbia la fiducia del potenziale “beneficiario”, a ciò sollecitando il potenziale beneficiario stesso, illustrandogli le conseguenze di una mancata individuazione.
Ma non basta: serietà e correttezza (inesistenti allo stato) impongono che il Giudice tutelare, ove non ritenga che la persona indicata dall’interessato sia
idonea (sperando che ciò non avvenga per qualche cervellotica ragione) ad assumere il ruolo, deve “ritornare” dall’interessato per acquisire una nuova designazione (e così via all’infinito). Non è possibile attribuire un “padrone” ad un’ altra persona: l’ads può non essere un “padrone”, ma un supporto, solo se riscuote la fiducia del beneficiario, e fino a quando la riscuote.
2. LA PREFERENZA DA RISPETTARE ANCHE NEI CASI DI “CONFLITTO” SUL PUNTO NELL’AMBITO FAMILIARE O NEL RAPPORTO CON I SERVIZI SOCIO-SANITARI
Su tale base occorre ribadire che il ruolo del “proponente” la sottoposizione ad amministrazione di sostegno nei confronti di un potenziale beneficiario che non la desideri, deve necessariamente “arrestarsi” al ricorso giudiziale, e non estendersi all’individuazione di un “fiduciario”. Quest’ultimo (tale deve essere un amministratore di sostegno, lo si ribadisce: una persona di cui l’interessato abbia fiducia) non potrebbe essere indicato dai familiari o dal servizio socio- sanitario che ha in carico la persona proprio perché si è inevitabilmente creato un “conflitto” in virtù di un’iniziativa giudiziale non gradita. Non può esistere, codice civile alla mano, nessuna “equidistanza” del Giudice tutelare tra preferenze dell’interessato e preferenze altrui.
Il Giudice tutelare deve “stare vicino” all’interessato e raccogliere le indicazioni di quest’ultimo, salva una valutazione di idoneità da svolgersi il più possibile nel dialogo e nel contraddittorio con lo stesso interessato (avendosi cura, come già riferito, di “tornare dall’interessato” ogni qualvolta la designazione operata da quest’ ultimo non venga ritenuta – per qualsivoglia ragione – adeguata.
E’ del tutto abnorme, ed evidentemente figlia di un vuoto “formativo” determinatosi a riguardo, la prassi secondo cui il Giudice tutelare “ricorra” ad un amministratore di sostegno esterno “a causa” del “conflitto” esistente in famiglia, “come se” al Giudice ed allo stesso amministratore di sostegno toccasse un inesistente ruolo di “mediazione” piuttosto che un ruolo di supporto all’amministrato.
Al di là di vecchi “paternalismi” nei confronti del disabile, superati dal riferito quadro normativo internazionale e nazionale, occorre comprendere che la Repubblica può mettere in campo una limitazione della capacità di agire a carico dell’individuo solo garantendo allo stesso individuo che questo sacrificio (grave e significativo, anche per i risvolti psicologici che presenta) si accompagna una “signoria” sul fiduciario destinato ad “accompagnare” il percorso di integrazione della volontà individuale.
Oltre questa “linea del Piave” il provvedimento limitativo rappresenta una intollerabile mortificazione ed amputazione della soggettività giuridica della persona.
3. LA PREFERENZA DA INDIVIDUARE ANCHE NEI CASI DI LIMITATA O ASSENTE CAPACITÀ DI COMUNICAZIONE DEL POTENZIALE BENEFICIARIO
E’ necessario che il Giudice Tutelare, in questo quadro, resti “aggrappato” alla volontà del potenziale “beneficiario” anche – e forse soprattutto – nei casi in cui l’individuazione di tale volontà è resa più complessa dalla limitata o assente capacità di comunicazione “con l’ esterno” della persona.
Anche in questo caso, non esistono “conflitti familiari” rispetto a cui il Giudice Tutelare e l’ ADS debbano o possano svolgere un ruolo di “mediazione”: la scelta non può che essere orientata alla ricostruzione della volontà della persona.
Come è noto, la Suprema Corte – con sentenza del 4.10.2007 n. 21748 – sul tema altrettanto delicato dell’interruzione di trattamenti sanitari “vitali” (parliamo della “storia” di Eluana Englaro) ha dato valore alla “ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza – ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza”.
Se risulta, a titolo di esempio, che una persona abbia convissuto con uno dei due figli (e magari tale figlio abbia altresì svolto il ruolo di caregiver…) nel corso degli anni che hanno preceduto la “necessità” di ricorrere al supporto dell’amministratore di sostegno, è naturale arguire da quella scelta di convivenza una indicazione relativa ad una preferenza in ordine alla scelta dell’amministratore di sostegno (ove la stessa “si incroci” con la disponibilità di tale figlio). In tali ipotesi, nessun “conflitto” familiare” (tra un figlio caregiver da dieci anni ed un altro che nello stesso arco temporale abbia sentito il genitore per gli auguri di Natale e di compleanno e che viva a centinaia di chilometri di distanza) può autorizzare il ricorso ad un soggetto “esterno” con l’intento – spesso dichiarato – di ricorrere ad un “mediatore” del conflitto familiare, dunque allontanandosi dalla funzione connessa all’individuazione di una persona che possa accompagnare il “beneficiario” e che corrisponda alle preferenze di quest’ultimo.
IV. LA REALTÀ E I DISASTRI DELL’ “EPIDEMIA” DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
A.
LA “PROFESSIONE” DELL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
Il massiccio ricorso alla figura dell’amministratore di sostegno “esterno”, figlio di una sistematica e palese violazione della normativa italiana, oltre che del quadro giuridico internazionale concernente la salvaguardia dei diritti fondamentali del “disabile”, ha prodotto l’ indebita nascita della “professione” dell’amministratore di sostegno.
Il fenomeno è tale da indurre la “preoccupazione” che il percorso sia stato inverso: e cioè che la “volontà“ di creare il “posto di lavoro – amministratore di sostegno”, determinantesi a beneficio – quasi sempre – di soggetti “legati” in vario modo ai Giudici tutelari, abbia in molti casi indotto all’attribuzione del ruolo all’esterno della cerchia familiare, strumentalizzando eventuali conflitti e forzando senza esitazione il codice civile, non senza dire (per le ragioni che saranno precisate) che la presenza di un ADS, e vieppiù la presenza di un ADS esterno, può costituire “di per stessa” un elemento generatore di conflitti (il che potrebbe non dispiacere giacchè il Giudice tutelare può riconoscere una maggiore indennità in rapporto all’ aggravio di impegno connesso ad un persistente “conflitto familiare” che complica e ostacola la normale gestione del beneficiario);
1.
I “PARCHI BUOI”, A FRONTE DELLE NECESSARIE GRATUITA’ ED UNICITA’ DELLA FUNZIONE
L’estraneità di tale tipo di scelta ad ogni esigenza di effettiva “cura” del beneficiario è resa evidente dall’incredibile (e sistematico) fenomeno della presa in carico, da parte del singolo amministratore di sostegno, di un numero elevato (talora di alcune decine) di beneficiari.
La “chiusura del cerchio” corrisponde alla concessione – da parte del Giudice tutelare – di una “indennità” (esentasse, giacché non si tratta di una retribuzione) da prelevarsi dalle sostanze (spesso magre) dei beneficiari stessi. Grazie a “parchi buoi” di venti, trenta, cinquanta “amministrati”, si creano così rendite cospicue a spese delle spesso magre sostanze del “disabile”, che vede depauperate le risorse di cui dispone al cospetto di un istituto che:dovrebbe essere essenzialmente gratuito, e che come tale si presenterebbe se fosse affidato a familiari e/o a soggetti individuati dal beneficiario, come la legge impone;
a) se fosse esercitato con la serietà e la delicatezza imposte dal buon senso non potrebbe che riguardare un “beneficiario”, eccezionalmente due (magari nel
b) caso di un figlio che si occupi di entrambi i genitori), ma che vede in radice esclusa la possibilità di essere interpretato con la serietà ed il rigore dovuti già per effetto della moltiplicazioni di responsabilità che non potranno essere esercitate compiutamente.
2.
“COSÌ RICCO E FRAGILE”: L’ INDEBITA “CACCIA AL BENEFICIARIO” E LA PARADOSSALE CREAZIONE DEI “GRUPPI DI PRESSIONE”
Questo scenario, “approfittandosi” dell’ “invecchiamento” medio crescente della popolazione italiana, ha prodotto una realtà di vera e propria “caccia al beneficiario”. Considerato che i “lucri” segnalati crescono in modo significativo al cospetto di patrimoni di una certa consistenza da “amministrare” (perché l’ “indennità” liquidata dal Giudice tutelare cresce con la complessità e la dimensione delle sostanze da “gestire”), la ricchezza di una persona, specie anziana, è da tempo divenuta un formidabile fattore di “fragilità”, tale da “imporre” la proposta [da parte spesso di interessati servizi socio-sanitari] dell’ imposizione di un amministratore di sostegno (naturalmente esterno). Quest’ultimo è “avaro” nell’ elargire la “paghetta settimanale” all’anziano (messo in condizione di non potere disporre del proprio denaro] quanto il Giudice tutelare è generoso nel concedere l’ “indennità” periodica.
Ben presto, a causa di questa ghiotta situazione, si è organizzata e strutturata l’ “industria” dell’ amministrazione di sostegno, attraverso:
a) il supporto teorico di sconclusionate e “autoritarie” teorie relative alla necessità di “proteggere” milioni di “fragili” da sé stessi;
b) la nascita di decine di “sindacati” di amministratori di sostegno, quotidianamente impegnati alla divulgazione di quelle teorie ed all’ esercizio di un’ attività di pressione nei confronti di istituzioni socio-sanitarie, Giudici tutelari e delle diverse articolazioni della società civile (dagli Ordini professionali ai parlamentari, dai partiti agli Enti locali) diretta a “propagandare” l’ indispensabilità dell’ amministrazione di sostegno (”esterna”, naturalmente): l’ appetito vien mangiando.
3.
L’ “INDOTTO”: L’EFFETTIVA DIMENSIONE DELL’ “AFFARE” AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Per comprendere la dimensione dell’ “affare” (cioè del business) di cui si parla, va evidenziato come l’ “entrata in carica” dell’amministratore di sostegno corrisponda sistematicamente alla perdita, da parte del “beneficiario”, della possibilità di continuare a rivolgersi ad operatori e/o professionisti di propria fiducia (tanto più guardati con sospetto quanto più “vicini” al beneficiario stesso).
Si crea così un nutrito “indotto” rappresentato da quanti, “grazie” all’ amministratore di sostegno acquisiscono nuova clientela (e c’`e da ritenere che gli siano grati e che, in un modo nell’altro, “ricambino”).
Dalla scelta di un badante a quella del commercialista, dall’individuazione di un istituti di credito a quella di un notaio, dalla selezione della ditta che deve compiere un qualunque lavoro in casa a quella dell’ingegnere che deve progettarli (etc… etc…) si assiste ad una radicale ‘”espropriazione” del “beneficiario” da ogni decisione: tutto è deve essere “nuovo””, tutto è “di competenza” dell’ amministratore di sostegno. Non è chi non veda, a tacer del resto, la “mortificazione” del senso dell’autonomia e della dignità personale che questa prassi determina.
Quest’ ultimo, si badi, è tanto poco presente – in dispregio al suo ruolo – nelle quotidiane e piccole problematiche del beneficiario (vissute con fastidio, ancorchè di importanza “vitale” per il diretto interessato) quanto prontissimo a rivendicare il proprio ruolo quando si tratta di attività operazioni che implicano un esercizio di potere finanziario (il “beneficiario” intanto – come già ricordato – ha la sua “paghetta” settimanale, indipendentemente dalle circostanze che abbiano determinato l’istituzione dell’’amministrazione di sostegno, e cioè anche quando non esistono “’rilievi’” in ordine ad una cattiva gestione del danaro.
B.
IL CONCRETO FUNZIONAMENTO DI SIFFATTE “AMMINISTRAZIONI DI SOSTEGNO”
L’ implementazione dell’amministrazione di sostegno “esterna”, come anticipato, avvia un percorso caratterizzato da una condizione di estrema e continua problematicità, comunque l’amministrazione di sostegno si sia generata, perché totalmente estranea al vissuto del “beneficiario” (con l’ ulteriore conflittualità che ciò comporta) e perché ci troviamo in un ambito, quello concernente la “gestione “della quotidianità della vita delle persona, che è “di per sé” altamente problematico. A titolo di esempio:
a) nell’ipotesi in cui la persona abbia “subito” l’ ADS, vivrà con estrema insofferenza tale condizione di “dipendenza”, contestando costantemente all’ amministratore di sostegno le sue scelte, e tentando disperatamente e continuamente di “chiedere giustizia al Giudice tutelare;
b) nell’ ipotesi in cui (anziano afflitto da demenza, ad esempio) vi sia un conflitto familiare che abbia indotto il Giudice Tutelare alla scelta di un ADS esterno, tale conflitto “si scaricherà” sull’ ADS, e quindi sul Giudice Tutelare ogni volta che l’ ADS stesso non assuma scelte condivise.
Ebbene: la realtà che abbiamo dinanzi agli occhi rende evidente che né l’amministratore di sostegno né il Giudice tutelare sono in grado di affrontare in
modo adeguato tali “conflitti”. Di fronte al dramma della quotidianità, “gli aggiustamenti “e le “soluzioni” che tendono ad individuarsi “in famiglia”, e “tra membri della famiglia” (in nome di un affetto e di un coinvolgimento emotivo che restano comunque presenti sullo sfondo dei conflitti stessi) divengono impossibili nella gestione “burocratica” ed invasiva di chi è privo di coinvolgimento “familiare” come ADS e Giudice tutelare. Questi ultimi “maneggiano” il giocattolo imprudentemente affidato alle loro mani mettendo in campo una “violenza istituzionale” destinata a produrre continua frustrazione.
Nata “con la scusa” di mediare nel “conflitto, l’ ADS “esterna” esaspera, potenzia e drammatizza il conflitto stesso, spesso “scegliendo” una delle parti in causa ed annichilendo l’ altra.
1.
PAROLA D’ORDINE: “NON DISTURBARE”: LE TECNICHE MESSE IN CAMPO DA ADS E GIUDICI TUTELARI PER NON ESSERE INFASTIDITI
A fronte delle continue urgenze e richieste di intervento provenienti dai “beneficiari”, e spesso da parte di familiari ed amici degli stessi, l’amministratore di sostegno ed il Giudice Tutelare mettono in atto una serie di strategie e di condotte finalizzate a “non essere disturbati”.
Tale realtà, grave, è per un verso frutto del vuoto di preparazione culturale (tentare di colmare il quale è lo scopo di questa lettera) del personale di cancelleria e dei Giudici Tutelari (incapaci di cogliere l’importanza e la delicatezza di tali contatti per l’equilibrio e la “serenità” del “beneficiario”), per altro verso è figlia dell’inadeguatezza dell’apparato organizzativo degli uffici del Giudice Tutelare (caratterizzati da numeri resi inadeguati dall’ “epidemia “delle amministrazioni di sostegno). Più un amministratore di sostegno riesce ad “evitare disturbi” al Giudice Tutelare, più “è bravo” e si rende “all’altezza” di acquisire nuovi “beneficiari”, cioè nuove “indennità” e nuovi “indotti”. Il Giudice tutelare non ha né il tempo, né la voglia, né la dirittura professionale utili ad una verifica concreta del “funzionamento” quotidiano dell’amministrazione in termini di idoneo supporto dell’interessato.
- LA SECRETAZIONE DELLA PROCEDURA E DEL FASCICOLO TELEMATICO
Uno dei primi, e più primitivi ed odiosi, strumenti messi in atto dai Giudici Tutelari per “non essere disturbati” consiste nella “secretazione” del fascicolo telematico, effettivamente accessibile soltanto all’amministratore di sostegno “esterno”. Nonostante la procedura preveda il necessario “coinvolgimento” di parenti entro il quarto grado ed affini entro il secondo grado [necessari destinatari (come è noto, ma su questo di tornerà) della notificazione dell’avvio della procedura], costoro vedono inibita la possibilità di conoscere i documenti relativi al prosieguo della procedura, anche se si siano regolarmente costituiti in giudizio (magari per contestare l’applicazione della misura limitativa della capacità di agire, o per contestare il ricorso a quell’ amministratore di sostegno esterno).
Nell’idea che “troppe” informazioni rese disponibili ad un familiare moltiplichino le occasioni di contestazione e di sollecitazione ad ADS e Giudice, si ha cura di tenere celati i documenti concernenti la “vita” della procedura. La giuridicamente sgangherata motivazione messa in campo per giustificare tale prassi è costituita dalla tutela della privacy del “beneficiario”. Probabilmente in rapporto a questa stessa “privacy”, lo stesso beneficiario in moltissimi casi non è reso destinatario neanche del “decreto di nomina” dell’ ADS, cioè non è a conoscenza dei poteri altrui che corrispondono ad una propria limitazione della capacità di agire, e che è stato adottato all’esito di un procedimento all’interno del quale non gli sono state date informazioni e non si è avuto cura di sollecitarlo alla nomina di un avvocato che potesse difendere tecnicamente le sue ragioni.
- L’ISOLAMENTO E L’ISTITUZIONALIZZAZIONE: MENO “VIVI”, MENO DISTURBI
Nei casi non infrequenti in cui l’ amministrazione di sostegno è stata istituita nonostante l’opposizione del “beneficiario”, oppure in una situazione di conflitto familiare, la vita concreta dell’istituto – come già detto – è contrassegnata da quotidiani contrasti in ordine alla gestione di piccole e grandi questioni. L’ obiettivo di limitare le occasioni di disturbo è allora costantemente perseguito dal binomio amministratore di sostegno – Giudice tutelare, in dispregio ai diritti al “domicilio” ed alle “relazioni familiari” sanciti dalla CRPD a favore dei portatori di disabilità psicosociali, anche attraverso:
- L’ISTITUZIONALIZZAZIONE.
Si tratti di un anziano che viene collocato in una RSA, o di un paziente psichiatrico che viene collocato in una comunità-alloggio o in strutture più “chiuse” (ce ne sono), tale strumento consente di limitare (insieme alla libertà della persona) i temi e le occasioni di lamentela.
Ciò va compreso tenendo conto della circostanza che chi gestisce la struttura, e “lavora” grazie a questi inserimenti, tende a farsi carico delle problematiche che insorgono per “incentivare” l’ amministratore di sostegno ed il Giudice tutelare a ritenere la struttura idonea alla ricezione di altri “beneficiari”.
Una struttura “funziona bene° anzitutto se non consente che l’ amministratore ed il giudice Tutelare vengano disturbati (magari attraverso il sequestro o la limitazione drastica dell’ uso dello stesso telefono cellulare, ed a parte i casi non infrequenti in cui al “beneficiario” non viene neanche dato il numero di telefono dell’ amministratore di sostegno: (“no guardi, mi contatta la struttura se c’è bisogno”). L’ ADS ed il Giudice tutelare preferiscono parlare con la struttura, che “ha sempre ragione” agli occhi dell’ ADS esattamente come l’ ADS “ha sempre ragione agli occhi del Giudice tutelare. Così può perfezionarsi il funzionamento della “tenaglia” in cui il “beneficiario” è stretto.
Chi sceglie l’amministratore di sostegno chiede a questi di liberarlo da ogni fastidio, impegnandosi contestualmente a “supportare” le scelte e le condotte dello stesso amministratore;
- L’ ISOLAMENTO
Quando non c’è l’ istituzionalizzazione, ma la persona vive in casa (propria o altrui), l’ “abbattimento” del disturbo passa attraverso la limitazione drastica delle possibilità di movimento e di contatto con l’ esterno. Meno persone si vedono, meno problemi insorgono, meno rischi si corrono, meno lamentele e sollecitazioni su eventuali situazioni inadeguate giungono. Fino a produrre, in nome del “non disturbo”, situazioni di vero e proprio “sequestro di persona” nelle quali il/la “badante” ricevono l’ ordine tassativo dall’ amministratore di sostegno di non aprire a nessuno senza autorizzazione preventiva (negata in radice per alcune persone individuate preventivamente come “fastidiose”), senza tenere in alcun conto la volontà del beneficiario, e senza alcun rispetto per l’ eventuale importanza del rapporto personale con chi vuole fare una visita all’ amico/a o al parente.
Naturalmente questa “istituzionalizzazione” e questo “isolamento” sono giustificati, come tutti i “crimini” di cui si sta narrando, con la motivazione del “benessere” del beneficiario, e si trova sempre uno psichiatra, meglio psicologo o psicoterapeuta pronti a sottoscriverlo (anche perché non sottoscrivendolo uscirebbero dal circuito dei professionisti “di fiducia” del Giudice tutelare).
- LA CRIMINALIZZAZIONE DEL “DISTURBO”
Nell’ evoluzione della “specie” giuridica in parola, è ormai collaudato l’ uso dello strumento “Procura della Repubblica” per fare fronte alle situazioni di “disturbo” che nonostante il descritto trattamento si manifestano come “irriducibili”.
Quando il beneficiario, il figlio, il genitore, l’ amico dello stesso “non si arrendono”, non si rassegnano al destino di istituzionalizzazione e/o di isolamento, alla distruzione dei rapporti personali, ma al contrario continuano a sollecitare struttura, amministratore di sostegno e Giudice tutelare: sottolineando quello che non è ben organizzato, quello che va migliorato, l’inadeguatezza della condizione che si è creata:
a) prima viene ridotta al lumicino o annullata la libertà (in caso di beneficiario) o la possibilità di contatto (nel caso di parente o amico): il messaggio è: “più insisti, meno ottieni”;
b) se neanche tale “avvertimento” funziona, si viene segnalati alla Procura della Repubblica. Può trattarsi di un’ accusa di stalking, di diffamazione, di maltrattamento: in tutti i casi di mostruose forzature giuridiche che possono determinare l’ applicazione di misure cautelari e l’ apertura di processi “a tacitazione” di ogni protesta. La Procura della Repubblica, “fino a ieri” sorda ad eventuali denunce provenienti da “beneficiario” e/o da parenti o amici dello stesso, si precipita a ritenere fondato l’ esposto dell’ amministratore di
sostegno e/o del collega Giudice tutelare, determinando l’ avvio di processi in cui (quando si tratta di parenti o amici), per ironia della sorte e sfacciataggine degli attori istituzionali, il “beneficiario” (senza la sua volontà e magari senza che lo sappia) si trova a costituirsi parte civile (per decisione dell’ amministratore di sostegno e del Giudice tutelare) contro la persona che più gli vuol bene e tiene alla sua condizione ed al suo destino.
- GLI EFFETTIVI “TUTELATI” DALL’ ISTITUTO DELL’ AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
Lo scenario descritto, quotidianità drammatica per decine di migliaia di persone in rapporto a tutti i Tribunali d’Italia, rende evidente quale sia l’ effettiva “tutela” garantita dal “Giudice tutelare”, oggi, nell’ esercizio del ruolo.
Il Giudice tutelare deve avallare ogni condotta dell’ amministratore di sostegno e coprirne ogni magagna perché si è trattato di una sua scelta (spesso interessata), e perché ogni “certificazione” di inidoneità dell’ amministratore di sostegno si tradurrebbe in una ammissione di propria “culpa in eligendo”. Il Giudice è “tutelare” dell’ amministratore di sostegno perchè deve essere “tutelare” di se stesso.
E allora:
a) se per qualche ragione (magari la presenza di un bravo avvocato che non abbia paura della “macchina”) l’ operazione “amministratore di sostegno esterno” non è riuscita, ecco che l’ amministratore di sostegno indicato dal beneficiario viene sottoposto ad un controllo asfissiante, si è precisi nel chiedergli i rendiconti, si è severi nel sottolinearne le mancanze, si drammatizza ogni manifestazione di dissenso o problematica; quando l’ amministratore di sostegno è esterno e “di fiducia” del Giudice tutelare non gli si chiede conto di nulla e si chiudono gli occhi di fronte alle più clamorosa e marchiane mancanze, così come di fronte a varie e proprie ipotesi di reato: su cui è bene tacere perché rischierebbero di “portarsi dietro” la affermazione di corresponsabilità del Giudice tutelare;
b) mentre l’ amministratore di sostegno può fare una telefonata (magari sul cellulare) e/o recarsi dal Giudice tutelare in Tribunale ogni volta che è utile per concordare le strategie di chiusura e di “non disturbo”, entrare in contatto con il Giudice tutelare è una fatica immane per il “beneficiario”, così come per eventuali parenti e/o affini costituitisi nella procedura, e/o per lo stesso amministratore din sostegno che sia effettivamente scelto dall’ interessato.
- IL DISASTRO FINANZIARIO
E’ appena il caso di segnalare come il ginepraio che sopra si è cercato di illustrare presenti l’ “effetto collaterale” di produrre un “disastro finanziario” a carico di quanti intendano metter in discussione l’ operato dell’ amministratore di sostegno
esterno (e quindi del Giudice tutelare che governa la procedura) nel tentativo di affermare i diritti fondamentali del “beneficiario” della procedura stessa.
Acquisita l’ impossibilità pratica di ottenere alcun risultato “in proprio”, cioè con la ragionevolezza delle argomentazioni espresse senza l’ausilio di mediazioni “tecnico legali”, ed in molti casi acquisita la stessa impossibilità pratica di stabilire un effettivo canale di comunicazione di ascolto con il Giudice tutelare, si comincia a dovere affrontare le spese di avvocati e consulenti tecnici che siano in grado di offrire un supporto ed ottenere quell’ ascolto che non si è riusciti autonomamente ad acquisire. Illusione che apparirà compiutamente tale ad anni di distanza, dopo essersi “svenati” nella continua ricerca di professionisti maggiormente all’ altezza. Parallelo a questo “disastro finanziario” delle vittime della procedura, si sviluppa all’ opposto l’ “arricchimento” di “autisti” e “terzi trasportati” dalla “macchina” dell’ amministrazione di sostegno. All’ indennità dell’ amministratore di sostegno ed agli incassi della “struttura” (cui talora devono contribuire anche coloro che si oppongono all’ inserimento del beneficiario nella stessa) si aggiungono le parcelle dei consulenti tecnici d’ufficio che il Giudice tutelare nomina tante più volte quanto più documentate e frequenti siano state le doglianze poste alla sua attenzione (sarà sempre l’ amministratore di sostegno “esterno” amico del Giudice tutelare che ha designato il consulente… ad avere ragione). Se la “macchina” arriva alla criminalizzazione del disturbatore, ci saranno avvocati nominati da ADS e Giudice tutelare per le denunce, per le costituzioni di parte civile, per le azioni di risarcimento danni… a spese del beneficiario o della Repubblica.
V. CONCLUSIONI
Quanto precede è documentabile in ogni singolo aspetto attraverso le centinaia di “storie” di cui “Diritti alla Follia” è “depositaria”, grazie alle quotidiane segnalazioni ricevute. Abbiamo “fiducia” che il drammatico stato di cose descritto sia rimediabile attraverso la piena “presa di coscienza” della consistenza delle violazioni atto, e che dunque la Repubblica si mostri in grado di procedere nella direzione del “nuovo” percorso tracciato dalla civiltà internazionale sul fronte della “disabilità”: non più “protezione”, non più “tutela”, ma supporto al processo decisionale libero ed autonomo nel pieno rispetto della dignità e dei diritti costituzionali della persona, anche quando in condizioni ritenute di ridotta autonomia.
CONVENZIONE ONU SULLA DISABILITA’: SEGNALAZIONE CRITICA NECESSITA’ FORMATIVE ED INFORMATIVE A BENEFICIO DEI GIUDICI TUTELARI E OFFERTA DI COLLABORAZIONE
LA REALTA’ DELL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO IN ITALIA
Associazione Radicale “Diritti alla Follia”
Cristina Paderi – Segretaria
Alessandro Negroni – Presidente
Michele Capano – Tesoriere
Gertraud dice
Ho lavorato come assistente amministrativo per ben 15 anni presso un tribunale nell’ufficio del giudice tutelare (amministrazioni di sostegno, tutele e minori), posso confermare che purtroppo quello che è stato riferito durante il convegno è quasi la normalità. È necessario coinvolgere i giudici che seguono le amministrazioni di sostegno in confronti con la realtà delle persone da assistere, per valorizzare insieme ai servizi sociali, alle associazioni di famigliari di questi soggetti bisognosi di sostegno le loro aspirazioni e le reali necessità e non calpestare e annullare loro dignità umana.
Michele Capano dice
Salve Gertraud, noi abbiamo privato costantemente a coinvolgere i giudici tutelari nelle nostre discussioni, ma per adesso nessuno ha accettato il confronto. Nell’ incontro tenuto a Cagliari il 3 luglio è venuto un tuo collega (o ex collega) che lavora all’ ufficio del giudice tutelare di Cagliari, ed io confronto è stato molto interessante. Proveremo a chiederti di portare la tua esperienza – sicuramente preziosa – in occasione di prossimi incontri sul web… grazie intanto del tuo contributo!
Diana dice
L’amministrazione di sostegno è una legge truffa. Serve a interdire l’intera popolazione anziana e disabile senza dover documentare l’effettiva incapacità dei beneficiari. Giudici tutelari e avvocati hanno la loro convenienza ad autorizzarne quante più possibile. Non è una questione di formazione, ma di prassi incentrate sull’abuso. Si possono cambiare le leggi, ma non le persone! I magistrati corrotti restano al loro posto. Per questo la legge 6/04 sull’amministrazione di sostegno deve essere abrogata. La gestione degli anziani e dei disabili è prerogativa esclusiva delle famiglie, come era prima di questa brutta legge. I tribunali italiani non sono luoghi idonei a garantire tutele
Michele Capano dice
Dacci una mano Diana! Cambiamo le cose insieme! ?
Giovanna Zanini dice
Sono d’ accordo con Diana. Purtroppo sto sperimentando cosa siano l’Amministratore di Sostegno ed il Giudice Tutelare. Tutto fanno, tranne l’ interesse del beneficiario.
E per far meglio le loro cose, fanno di tutto per tenere lontani i familiari dell’assistito.
Io sto lottando per avere giustizia, ma la Giustizia dov’e?
Aiutatemi se potete!
Diritti alla Follia dice
Buongiorno, ci scriva a dirittiallafollia@gmail.com
Luigi dice
Condivido. Ribadisco altresi che i diritti soggettivi degli amminkstrati, lo dico per esperienza lavorativa in un CSM come operatore, spesso si assiste a una pratica imbarazzante e ricattatoria.
Il più delle volte l Ente pubblico avoca a sé l ‘amministrazione in oggetto se non vi sono parenti disponibili. Tuttavia non mi risulta che si sia sia mai accennato al conflitto di interesse.. Pare che accade pure per le amministrazioni comunali..
Grazie
Michele Capano dice
Accade sistematicamente e i servizi (che in teoria non potrebbero svolgere il doppio ruolo per evidente conflitto di interesse) cercano di promuovere l’amministrazione di sostegno anche per “liberarsi” di familiari troppi esigenti riguardo alle cure al loro congiunto …. Dobbiamo metterlo sempre più “sistematicamente”
In evidenza …
Mario dice
Amministrazioni comunali, sindaci, vice sindaci?
Vedrò di ritrovare alcuni di questi casi che abbiamo conosciuto per metterli a disposizione in questa pagina.
SARA dice
Bello! Ho letto l’appello, avrei qualcosa da dire.
Sulla gratuità: se fatto bene, con coscienza, come Dirittiallafollia vorrebbe, giustamente, dagli AdS, questo incarico sottrae un MARE di tempo al lavoro; quindi o nominiamo i familiari o formiamo altri soggetti, normali cittadini, ad esercitare le funzioni di AdS e assegniamo un incarico a testa al massimo.
In ogni caso chiunque faccia l’AdS sa che, a spanne, su dieci amministrazioni, 6/7 sono senza indennità (e spesso con anticipo di costi che l’AdS mai recupererà). Mi pare francamente una parziale rappresentazione della realtà quella secondo la quale vi sia una caccia all’accaparramento.
Riguardo la trasformazione in professione, perché no? Se svolta come si deve necessita di tempo e preparazione. Vero è, come settimana scorsa la responsabile della Casa FAmiglia dove finalmente ho trovato posto per il signor BT, senza tetto dal 2009, che di AdS che si “sbattono”, che passano a trovare i loro “pazienti” con una certa continuità, ce ne sono ben pochi (specificamente, lì passo solo io e di anziani sottoposti ad amministrazione ce ne sono una quindicina).
Se, faccio un esempio concreto, mi si affida un ragazzo psichiatrico o con deficit cognitivo per poterlo aiutare io debbo meritarmi la sua fiducia; incontrarlo, ascoltarlo, essere presente; capire se il suo disagio è solo dovuto al deficit o se vi sono cause esterne sulle quali posso agire; stimolare i servizi perché abbiano una visione più ampia della situazione e non si limitino a considerare il ragazzo un problema da risolvere piazzandolo in comunità. Come posso pretendere che impari a pensare in modo ordinato se vivono in 9 in un trilocale dormendo per terra, perché sono stranieri e, pur in Italia dalla nascita e lavorando a tempo indeterminato, nessuno affitta al figlio maggiore, sposato e con due figli, di talché sono costretti a vivere tutti insieme? Non c’è ordine all’esterno, non c’è all’interno: ne parlavo giusto ieri con l’assistente sociale della tutela minori, adesso mi attivo per trovare una casa al fratello maggiore, che non è sotto amministrazione; potrei fregarmene, ma è funzionale a dare serenità all’intero nucleo famigliare, quindi indirettamente, ma efficacemente, anche al beneficiario. Io l’amministrazione di sostegno la intendo così e per farlo bene serve tempo (potremmo cooptare i togati, anche in pensione, i dirigenti pubblici e privati, quelli che con uno stipendio fisso non da impiegato possono dedicare un po’ di tempo alla società).
Sulla coercizione della volontà del beneficiario: se questo incarico viene svolto un tanto al chilo ci credo… se svolto con coscienza e amore tutte le decisioni vengono discusse e ragionate, quando è possibile; quando io (soggettivizzo, me ne rendo conto) limito il cash al pensionato o allo psichiatrico di turno non è certo per cavarne un guadagno personale, ma semplicemente perché di soldi non ce ne sono e devo avere i soldi per le spese funebri. Devo poter garantire le visite urgenti (v. dentista) non a carico SSN. Devo accantonare qualcosa per la RSA; magari so che quei soldi verrebbero usati semplicemente per ubriacarsi o comprare sostanze non lecite. Ritengo che sia questo il ragionamento che l’AdS medio fa (o almeno dovrebbe fare).
Risoluzione dei conflitti familiari: fino ad ora, ovviamente parlo ancora per me, quando son stata nominata per sanare un conflitto sono riuscita a portare a casa il risultato di tranquillizzare tutti, beneficiario e familiari. Come? Con l’ascolto di tutte le posizioni e la condivisione delle informazioni e dei perché delle scelte, fatte PRIMA di scegliere e chiarendo bene che ascolto tutti, ma in caso di litigio poi decido io. Anche per questo serve tempo.
Tutti i miei amministrati hanno il mio cellulare, un loro cellulare (che no, non viene tolto in casa di riposo, solo se si viene ricoverati in un nucleo protetto, non viene tolto nemmeno nei reparti di psichiatria o in comunità) e possono chiamarmi o scrivermi quando voglio.
Va bene il diritto alla follia, ma che la casistica venga ridotta a una lobby dei giudici e dei professionisti, questo mi spiace. E mi spiace ancor di più che si giudichino inidonei i non togati: nella mia esperienza i non-togati sono molto molto più sul pezzo dei togati.
E vi garantisco una cosa, forse saremo in pochi a lavorare così, ma non così pochi come pare emergere dalla descrizione dell’appello.
Diritti alla Follia dice
“Diritti alla Follia” , non “Diritto alla Follia ” :))))
Michele Capano dice
Gentilissima sarà, anzitutto grazie dell’ attenzione e della risposta.
Ci piacerebbe fossi disponile ad affrontare i temi anche con più agio e innoubboiche discussioni: tentiamo costantemente un dialogo con ads ma non è facile trovarne di disponibili…
Non affronti un punto cruciale del nostro documento: l’ads deve essere scelto dal beneficiario, e nominato dal giudice sotto dettatura di quest’ultima. Da quello che scrivi (parliamo del caso personale perché hai introdotto tu l’approccio) sembra che nessuno dei tuoi beneficiari ti abbia scelto perché conosciuta prima della nomina: questo è inammissibile umanamente , oltre che illegale (per quanto “ordinario”). Questa è la “madre” di tutti i problemi: non si attribuisce in potete ad un individuo su un altro, calpestando NELLA NOMINA, totalmente la volontà do quest’ ultimo. È un atto violento ed abominevole, contro cui ci battiamo. E la “professione” (spesso degli amici dei “non togati”) è figlia di questa violenza.
Ci sono ads e giudici tutelari brave persone (e cattive persone tra gli attivisti di Diritti alla Follia). Leonardo Sciscia ha scritto che “di brav’uomini spesso è fatta la base di ogni piramide di iniquità”. Il problema è il “sistema” che si contribuisce ad alimentare.
Sulle condizioni di libertà nei reparti di psichiatria e nelle comunità disponiamo di un punto di osservazione piuttosto privilegiato: il “sistema” corrisponde alla sistematica privazione dei diritti fondamentali della persona, come il Garante Nazionale dei Ristretti non sta mancando di sottolineare ormai spesso.
Le persone devono essere aiutate (lodevole intento) sulla base della loro volontà: sennò è un’altra cosa. Obbligare ad essere aiutati (e a subire le spese che questo comporta) è contrario – come chiarisce la CRPD inattuata in Italia – ad un diritto fondamentale del “fragile” (che nella sua disperazione intellettuale Paolo Cendon, avvertendo l’illegalità del “sistema” dell’ ADS, vuol chiarire – in un post su facebook di qualche giorno fa – non corrisponda al “disabile”: cioè “possiamo ledere i diritti fondamentali del fragile”… farneticazioni di chi è fuori dal nuovo corso culturale internazionale sull’ ausilio al processo decisionale dell’individuo, “contro” ogni idea di “protezione” (e con questa scusa, di “impossessamento”) dell’ individuo.
Mi auguro potremo averti presto mostra gradita ospite.
Tigellio Concas dice
Che peccato ho scoperto troppo tardi una realta’ che tutti mi hanno tenuta nascosta.Istituzioni varie, giudice ,ADS parenti, forze dell’ordine, assistenti sociali ecc. Senza ombra di dubbio mi accollo la responsabilita’ e dico: associazione criminale di stampo mafioso. Sono allo stremo AIUTO. Parlo oramai di anni…….