Di Gigi Monello
Come ben sanno garlascomani, criminologi per hobby, patiti dell’horror e videodipendenti, “Errare humanum est”. Dopo 17 anni e tre gradi di giudizio, una Procura della Repubblica ha rimesso tutto in discussione su “Garlasco”: forse in carcere è finito un innocente. Forse. La cosa ha messo a rumore mezza Italia e gli appuntamenti fissi in Tv sono trionfi di audience.
Con rumore più modesto, sabato 18 ottobre, a Lecce, la Polizia di Stato ha prelevato e condotto in carcere Gabriella Cassano, un avvocato. Si è così chiuso il lungo iter giudiziario che aveva al suo centro la figura di Marta Garofalo Spagnolo e sullo sfondo il sempre più – a dir poco – inquietante istituto della Amministrazione di sostegno. La Cassano è stata condannata – in via definitiva – per avere, in concorso con il suo compagno Fabio Degli Angeli ed altri, circonvenuto, sottratto, sequestrato e abbandonato un incapace; la citata Garofalo, all’epoca dei fatti ventisettenne.
Marta Garofalo Spagnolo nasce nel 1991 da una relazione occasionale e vive infanzia e fanciullezza presso i nonni materni, in un quadro familiare di ristrettezze, degrado e assenza di stimoli: non ha mai conosciuto suo padre e intrattiene con la madre (Spagnolo) un rapporto discontinuo e spesso conflittuale. Con la morte del nonno Ercole la situazione si deteriora ulteriormente. Nel 2010, quando ha 19 anni e sta frequentando il Liceo Pedagogico Siciliani di Lecce, chiede alla madre di conoscere l’identità di suo padre, e saputala, va a trovarlo e gli rivela di essere sua figlia: i due parlano, si rivedono, comincia una frequentazione. Il padre naturale (Garofalo) manifesta l’intenzione di riconoscerla legalmente.
L’aver passato gli anni cruciali della sua formazione in una situazione di vuoto di riferimenti affettivi forti, ha, però, segnato profondamente la personalità di Marta, che, come due successive perizie psichiatriche stabiliranno, soffre di un “lieve/moderato deficit cognitivo”, che è conseguenza della deprivazione affettiva e socio-culturale in cui è cresciuta. Il che significa che non è un soggetto incapace di intendere e di volere, ma “indebolito”; cosa che in teoria lascia prospettive di recupero indefinibili.
Le tensioni familiari intanto non cessano: disturbi fisici e momenti depressivi inducono Marta a chiedere aiuto ai Servizi sociali del suo Comune. È il passo fatale: i medici prescrivono psicofarmaci; ma lei, dopo averli sperimentati, comincia a fare resistenza; non vuole assumerli, afferma che quando lo fa si sente meno sveglia. I Servizi sociali, a questo punto, la segnalano al Giudice tutelare chiedendo la nomina di un Amministratore di sostegno. La Legge che nel 2004 – con travolgente successo di numeri – è stata introdotta in Italia, consente questa soluzione “prêt-à-porter”.
Marta – che di lì a poco conseguirà il diploma – continua a vedere suo padre, che conferma di volerla riconoscere. Per questa ragione, ma anche al fine di impedire la nomina di un Amministratore, il Garofalo, su consiglio di Degli Angeli (suo conoscente), si affida all’Avv. Cassano. Il 17 febbraio 2011, davanti al Giudice, Marta dichiara,
“Non ho bisogno di un amministratore di sostegno con mia nonna litigo spesso perché spesso mi manda a dire cose a mia madre e questo non mi va. Esco con mio padre Garofalo Luigi, mi reco a Carmiano dove mi incontro con delle amiche in casa loro: Margherita e Marietta. Frequento il Liceo Psicopedagogico a Lecce. Mi hanno prescritto una terapia farmaceutica in compresse e gocce ma non la voglio assumere perché quando non la assumo sono più sveglia”.
Tutto invano: inspiegabilmente ignorata un’istanza di perizia psichiatrica, nel luglio 2011 viene nominato l’Amministratore (un avvocato); e nell’ottobre dello stesso anno Marta entra in una “Struttura” (vengono amenamente definite “case-famiglia”). Nel gennaio del 2012, la prima fuga: si fa 4 km a piedi e raggiunge, in un paese vicino, la casa di uno zio; che avvisa i Carabinieri. Da questo momento, fughe e tentativi di liberarsi si susseguiranno nel tempo.
La situazione si trascina per anni: tra contatti sempre più impediti, tensioni, contrasti, contestazioni, battaglie legali; il padre continua la sua azione per il riconoscimento legale, mentre Cassano e Degli Angeli, per loro conto, finiscono per affezionarsi e provare pietà per questa infelice disperata – ma anche sdegno per il sistema che la incastra – ; e per determinarsi a fare qualcosa per liberarla. Nell’ottobre del 2017, Marta scappa di nuovo dalla Struttura: i Carabinieri la ritroveranno a otto chilometri di distanza. Nello stesso anno, Garofalo è divenuto anche legalmente padre.
La “partita” intorno alla vita della cittadina italiana Marta Garofalo Spagnolo approda ad un passaggio cruciale nel gennaio 2018.
Decisi a presentare istanza per la revoca – o, in alternativa, la sostituzione – dell’ Amministratore di sostegno, allo scopo di sottrarla a prevedibili pressioni che potrebbero distoglierla da qualcosa che ha sempre manifestato di desiderare (essere libera), Degli Angeli e Cassano compiono un pericoloso azzardo: il 14 gennaio si recano in visita presso il reparto psichiatrico dell’ Ospedale leccese dove Marta si trova provvisoriamente; e la fanno allontanare con loro. L’interessata firma la richiesta di revoca/sostituzione dell’AdS: nel caso la decisione si dovesse orientare verso la sola sostituzione, il primo nome proposto è quello di S., una vecchia amica di Marta; in seconda battuta la Cassano propone se stessa.
Il 25 gennaio si svolge l’udienza: il Giudice ordinario è, però, assente, e il supplente, vistane la delicatezza, preferisce congelare la cosa sino al rientro del collega. Durante l’udienza, in aula entra un agente di Polizia che consegna alla Cassano e a Marta una convocazione in Procura. È stato aperto un fascicolo penale. Pochi giorni dopo, il Giudice titolare rigetta il ricorso e riaffida la ragazza alla struttura e all’Ads in carica.
Naturalmente, per i “rapitori” Cassano-Degli Angeli le cose prendono a mettersi male. Il PM che indaga sulla scomparsa di Marta, li accusa di sottrazione, sequestro, abbandono e circonvenzione di incapace. Per qualche tempo vengono trattenuti in stato di arresto.
Ciò che li “inguaia” definitivamente è l’incidente probatorio del 3.7.18, durante il quale “la circonvenuta” fa esternazioni – siamo a 6 mesi di distanza dai fatti – che accreditano le ipotesi dell’Accusa: prende le distanze dagli amici liberatori: “mi hanno presa dall’ospedale senza l’autorizzazione dei medici” (in precedenza, al PM aveva detto: “me sono scappata dall’ospedale, è vero; però non ho fa… non ho ammazzato nessuno”); rivede la sua valutazione sull’ AdS, cui ora dice di volere “tanto bene che la chiamo pure mamma”; rimarca l’imprudenza dei Cassano-Degli Angeli: “Fabio e Gabriella non avevano capito che io senza farmaci non riuscivo a stare per troppo tempo”.
Questa ed altre prove portano il Giudice di primo grado a decidere per la condanna: 4 anni e sei mesi ciascuno. Naturalmente ricorrono. Ma anche il Giudice d’Appello giunge alle stesse inesorabili conclusioni (con “certezza granitica”): quando vanno a trovarla in ospedale per farla uscire, la ragazza non è capace di autodeterminarsi e dunque l’agire degli imputati è una manovra dolosa tesa a suggestionare una persona inabile a comprendere la realtà; e soprattutto a resistere ad una altrui volontà che le appaia solida e rassicurante.
Il movente del disegno criminoso? È evidente: “unico e precipuo” scopo dei due, era quello di “ottenere la nomina della Cassano quale amministratore”; e ciò al fine di poter gestire le disponibilità economiche della assistita.
Tutto chiaro? Ho voluto leggere integralmente le motivazioni della sentenza di condanna in appello: è un testo ampio, articolato, dettagliato, ricco di riferimenti dottrinali e scientifici; 74 fitte pagine di argomentazioni ben scritte, elaborate, organizzate.
Eppure, terminata la lettura, non ho potuto fare a meno di provare un senso di sospensione. E mi è tornato in mente un mio conoscente, il barista che per buoni vent’anni mi ha servito la colazione nel bar sotto casa; un artista del disegno sulla schiuma del cappuccino; uno dal curriculum scolastico breve (un primo anno di superiori) ma dal “discorso lungo”; Luca, un uomo comune; ma con una qualità che, in vent’anni d’ascolto, mi si era fatta sempre più chiara: un fiuto spontaneo per l’illogico, Momento! … la cosa non mi quadra. Questa la sua tipica uscita.
Studiare una vicenda giudiziaria è un lavoro temibile: lunghi lassi di tempo, molti protagonisti, accumularsi di infiniti dettagli, interpretabilità delle situazioni, versioni divergenti, ambiguità, imbrogliarsi delle cose. Non invidio Giudici e Avvocati: c’è spesso di che sviluppare un mal di testa.
Qualcosa che non quadra nella sentenza d’appello? Possibile. Isoliamo soltanto tre cose :
1) La ragazza viene, di volta in volta, definita, “soggetto altamente suggestionabile”, “altamente vulnerabile”, “influenzabile”, “manipolabile”; in una condizione di “inferiorità psichica” e “dipendenza”; incline “ad affidarsi ciecamente e totalmente a chiunque le garantisse, o anche solo promettesse, attenzione e cura”.
Ma se una persona è strutturalmente così, non è ragionevole supporre che resti così, chiunque sia il soggetto che ha di fronte? (amici, avvocati, medici, pubblici ministeri, poliziotti, infermieri, gestori di case-famiglia, giudici, etc etc). È sufficiente che chi le sta davanti appaia forte, “vincente” e “dispensatore di sicurezza”.
Se questo è vero, allora per capire cosa vuole veramente Marta, bisognerebbe tenere conto solo di quel che fa quando è sola; cioè quando fugge senza portarsi dietro gli psicofarmaci.
Ed ora una domanda spontanea: niente niente, realizzato che gli “altri” erano dei perdenti (addirittura nei guai), Marta si è riposizionata per compiacere i soli che potevano ancora proteggerla?
2) Il movente dei rei sarebbe la volontà di appropriarsi delle disponibilità economiche della Garofalo: la sentenza le specifica: Marta dispone, mensilmente, di 250 euro di pensione di invalidità civile e di 500 di indennità di accompagnamento; su un libretto postale a suo nome sono poi depositati 9000 euro. Dei due principali attori di questo giudizio, uno fa l’avvocato, l’altro ha un posto in ditta (la falegnameria di famiglia): si sarebbero esposti a gravi conseguenze materiali, allettati da questo patrimonio e dopo anni di preparativi?
Anche qui una domanda spontanea: niente niente, avessero, “i rapitori”, agito con lauta dose di temerarietà, ma per puro idealismo?
3) Unico scopo di uno dei condannati era farsi attribuire il ruolo di AdS. Ma se si ripassano le fitte fitte 74 pagine, si scopre che nell’istanza al Giudice tutelare, questa unicità non esiste: prima di indicare se stessa come nuovo gestore di quel po’ po’ di patrimonio, la Cassano dà precedenza – nell’ordine – a : 1) la revoca; 2 ) la nomina della amica S.
Ancora una domanda spontanea: niente niente, non coltivasse, l’avvocata, alcun basso interesse personale?
Dice un vecchio adagio della Civiltà giuridica anglo-sassone che per condannare qualcuno si deve raggiungere quella condizione mentale consistente nel trovarsi al di là di ogni ragionevole dubbio. È successo, in questo caso? Decida il lettore.
Un ultimo dettaglio: il 3 novembre 2022 Marta Garofalo si è suicidata in Struttura, ingerendo una massiccia dose di psicofarmaci. Infarto fulminante. È fuggita per l’ultima volta. Senza che nessuno la influenzasse.
http://iscolla.blogspot.com/2025/10/quando-lidealismo-porta-dritto-in-galera.html