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Diritti alla follia

Associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico.

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Articoli

Non può esserci ‘salute mentale’ senza consenso

Diritti alla Follia · 10/10/2025 · Lascia un commento

Radio Kalaritana ci ha ospitati per parlare di diritti negati in psichiatria e per presentare il Convegno che si terrà a Cagliari il prossimo 12 novembre, dal titolo “Cittadini senza cittadinanza – Diritti negati in psichiatria”.
Abbiamo colto l’occasione per riflettere insieme sulle violazioni dei diritti fondamentali che ancora oggi subiscono molte persone direttamente coinvolte in ambito psichiatrico.

Abbiamo scelto Cagliari perché intendiamo portare anche in Sardegna un momento di confronto pubblico su questi temi. L’iniziativa nasce su proposta della nostra socia sarda Martina Mura, che si è impegnata per organizzarla insieme al Direttivo dell’associazione.
Diritti alla Follia opera a livello nazionale, ma per noi è fondamentale essere presenti anche nei territori, incontrare le persone, ascoltare esperienze dirette, confrontarci con realtà locali e professionisti.

Il titolo del Convegno — “Cittadini senza cittadinanza – Diritti negati in psichiatria”.
 mette in luce una contraddizione profonda: molte persone che entrano in contatto con i servizi psichiatrici pubblici, pur essendo cittadini come tutti, non vedono riconosciuti nella pratica i loro diritti fondamentali.
Quando parliamo di diritti negati, ci riferiamo a situazioni molto concrete: non solo al Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma anche a tutte quelle circostanze in cui la libera scelta del medico o del luogo di cura viene di fatto preclusa, o in cui la persona non riceve informazioni chiare e comprensibili sui trattamenti che la riguardano.

Questa mancanza di informazione non si manifesta solo durante il TSO, ma anche negli ambulatori, nei reparti psichiatrici e in tutta la successiva presa in carico.
Ci riferiamo poi alla violazione della privacy, quando dati sensibili vengono trattati senza la dovuta riservatezza, e alla coercizione fisica o farmacologica, che purtroppo resta presente in molte strutture.
Sino ad arrivare alla contenzione, cioè all’essere legati al letto per ore o giorni interi — una pratica che dovrebbe essere bandita da qualunque contesto sanitario.
In alcuni casi, abbiamo raccolto anche segnalazioni di abusi fisici e violenze sessuali subiti da persone ricoverate in stato di costrizione, senza che vi sia stato un reale controllo o una possibilità effettiva di difesa.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio dovrebbe essere disposto solo in casi di necessità e urgenza, quando una persona manifesta una grave alterazione psichica, rifiuta le cure e non è possibile intervenire in modo alternativo al ricovero. Serve la proposta di un medico, la convalida di un secondo medico e, infine, l’autorizzazione del sindaco, che agisce come autorità sanitaria. Entro 48 ore, il provvedimento deve essere convalidato dal giudice tutelare, che dovrebbe verificare se ci siano davvero le condizioni previste dalla legge.

Sulla carta, quindi, il TSO è una misura eccezionale e temporanea; nell’attuale normativa i presupposti per il TSO però sono vaghi, i controlli poco efficaci e le garanzie della persona non sono realmente attuabili. Non sempre è garantita la comunicazione con l’esterno o il diritto alle visite, e questo accresce la sensazione di isolamento e impotenza di chi vi è sottoposto. Gli abusi, poi, non si fermano al TSO: si verificano anche prima e dopo, nelle strutture residenziali, nei centri di salute mentale, nelle carceri e nelle REMS.

La recente sentenza n. 76 del 2025 della Corte Costituzionale ha riconosciuto l’incostituzionalità dell’articolo 35 della legge sul TSO, nella misura in cui non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e tempestivo sulla privazione della libertà personale.
La Corte ha ribadito un principio chiaro: nessuna finalità terapeutica può giustificare la sospensione dei diritti fondamentali.

Come associazione, da tempo chiediamo una riforma profonda della legge 833/1978. La nostra proposta di legge di iniziativa popolare mira a introdurre garanzie reali: informazione e notifica obbligatorie del provvedimento alla persona e al suo legale, difesa legale gratuita e obbligatoria sin dall’inizio, audizione diretta della persona da parte del giudice, durata massima di quattro giorni prorogabile solo due volte, divieto assoluto di contenzione fisica e farmacologica, piena tracciabilità dei TSO e accesso delle associazioni di tutela nei reparti.

La riforma si ispira agli standard internazionali indicati dal Comitato ONU, dal CPT e dall’OMS, che chiedono di superare le pratiche coercitive e sostituirle con modelli basati sul consenso, sul sostegno e sull’autodeterminazione.

Diritti alla Follia è un’associazione indipendente, senza fini di lucro, che promuove i diritti di utenti, ex utenti e sopravvissuti alla psichiatria. Abbiamo lanciato campagne come “Se la Tutela diventa Ragnatela” e “Fragile a Chi?!”, curiamo la rubrica “Il Diritto Fragile”, e collaboriamo con reti europee come ENUSP e Mental Health Europe.
Ci occupiamo di segnalazioni di abusi, ricerca giuridica e sociale, e formazione sui diritti e sul consenso informato.

Per conoscere nel dettaglio le nostre attività e le proposte di riforma, potete visitare il nostro sito www.dirittiallafollia.it o seguirci su Facebook, Instagram, YouTube e Telegram.

E vogliamo concludere con le parole pronunciate ai microfoni di Radio Kalaritana:

“Non può esserci ‘salute mentale’ senza consenso”

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Processo agli psicofarmaci “Abbiamo confuso il curare con l’‘aggiustare’”

Diritti alla Follia · 07/10/2025 · Lascia un commento

Di Susanna Brunelli

Susanna, ESP – Esperta per Esperienza, con questo testo solleva una critica radicale e pone una domanda cruciale sulla psichiatria contemporanea: di quale “cura” stiamo realmente parlando?

C’è un momento, nella vita di chi attraversa la sofferenza psichica, in cui la parola “cura” smette di suonare rassicurante e inizia a pesare.

Ho conosciuto da dentro il mondo della psichiatria: prima come familiare, poi come diretta interessata. Ho imparato a riconoscere i silenzi, le paure e le speranze di chi vive quel confine sottile tra diagnosi e identità.

Nel corso degli anni, ho notato come spesso si descriva la salute mentale soltanto come una questione di accesso alle cure. Tuttavia, la domanda che mi accompagna è un’altra: di quale tipo di “cura” stiamo parlando?

Perché, se è vero che gli psicofarmaci possono offrire un sollievo momentaneo o una certa stabilità, è altrettanto vero che non possono essere la risposta al disagio esistenziale.

Troppe volte ho visto la “cura” trasformarsi in un confine.

Quando il farmaco diventa lo strumento in cima alla piramide, la persona rischia di scomparire dietro la diagnosi — diagnosi che spesso cambia come se fosse un’opinione.

Le sofferenze, nella maggior parte dei casi, nascono da relazioni interrotte, ambienti ostili, disarmonie diffuse, vite che chiedono ascolto più che aggiustamenti chimici.

Ho sentito una frase che mi risuona molto:

“Non ci sono cure da fare, ma problemi da risolvere.” — Dott. Giorgio Antonucci

Non si tratta di negare l’utilità dei farmaci, ma di riconoscerne i limiti.

Un antidepressivo può calmare l’angoscia, ma “toglie il sentire”.

Un antipsicotico può ridurre le voci, ma non restituisce senso a chi sta cercando di esprimere qualcosa di indicibile.

Le benzodiazepine possono aiutare in un momento in cui l’ansia ti attanaglia, ma rischiano di fare l’effetto opposto se usate a lungo termine.

Si sta confondendo il curare con l’aggiustare, la salute con la conformità.

La vera cura passa attraverso la possibilità di essere ascoltati senza il timore di andare incontro al peggio se ci si apre a chi dovrebbe aiutarti.

Forse è il momento di analizzare il termine “cura” e di mettere sotto processo gli psicofarmaci.

Non per condannarli, ma per liberarli dall’impossibile ruolo di sostituire l’umanità con la chimica.

Si parla molto di diritto alla salute, ma che senso ha la cura se questa non equivale a far stare bene?

Perché non rispettare le persone, anche con le loro vulnerabilità, caratteristiche e talenti?

Perché ci spaventa la vulnerabilità?

Siamo esseri umani. Tutti possiamo vivere momenti di crisi, di limite, di rottura, di protesta. La risposta, però, non può essere sempre la medicalizzazione.

Anche la tristezza e lo smarrimento hanno un loro significato.

Perché etichettarli subito come patologia?

Esiste una connessione profonda tra salute mentale, sentimenti, pensieri ed emozioni — tra il nostro stato interiore e le relazioni che viviamo.

Eppure, tutto dev’essere “gestito”, “contenuto”, “sanitarizzato”: come se l’emotività fosse una malattia.

Come ESP, sento fortemente l’urgenza di riportare al centro il contenuto umano ed esistenziale delle persone.

Le numerose persone che ascolto mi parlano di come vorrebbero trovare canali alternativi a quelli tradizionali, poiché l’insoddisfazione aumenta con il passare del tempo dall’inizio dei trattamenti e dalla presa in carico ai servizi.

Ancora oggi ci si limita a contenere, a riparare, a “gestire”, ma non si va alla radice.

Quando porto questi temi alla luce, spesso non risulto “empatica”, ma “antipatica”.

Perché mi rifiuto di restare in superficie. Voglio dar spazio alla protesta.

Io quella melma l’ho guardata. Ci sono scesa dentro.

Ho sentito l’odore, il disgusto, l’amaro delle cose che sembravano accettabili ma non lo erano affatto.

E ho capito che, per uscirne, bisogna stare nel dolore — non fuggirlo, non addormentarlo, non sopprimerlo.

Conferenze, articoli, congressi… Tutto interessante.

Ma nel frattempo, le persone continuano a soffrire e a morire.

Corpi che si ammalano, sottoposti agli effetti causati dagli psicofarmaci, perché assunti per periodi indefiniti e infiniti — ignorati, sottovalutati, taciuti.

Senza amore, senza pazienza, senza la volontà di ascoltare davvero, la cura diventa un atto di protocollo, un esercizio di medicina difensiva.

Ma niente che assomigli davvero a qualcosa che faccia stare bene.

I sintomi parlano. Parlano della nostra anima, della nostra storia, delle relazioni che ci hanno ferito.

Chi non ha mai vissuto un momento difficile nella propria vita?

Emozioni forti, pensieri distruttivi, desiderio di fuggire, di sparire…

Invece di mettere tutto a tacere, proviamo ad ascoltare!

Da dove arriva quella rabbia? Quella paura? Quella frustrazione?

Chi si prende cura della sostanza?

Molto spesso ascolto storie come queste:

Ragazze che a 14 o 16 anni hanno già intrapreso una “carriera psichiatrica”.

Una giovane di 21 anni, con perdita di sensi e rovesciamento degli occhi, dopo la somministrazione di un depot neurolettico.

Un ragazzo di 29 anni con disfunzione sessuale permanente da SSRI.

Una donna di 30 anni con acatisia, il corpo trasformato, istituzionalizzata perché divenuta aggressiva dopo i trattamenti.

Chi vive queste storie spesso non ha voce.

I familiari si disperano, non sanno a chi rivolgersi.

E chi dovrebbe aiutarli, troppo spesso, non sa, non ascolta, non vuole sapere, non ha tempo.

Io non credo che la psichiatria abbia solo pazienti in crisi: è essa stessa in crisi.

Ho visto troppe persone stare male nella “cura” — e anche morire di psichiatria.

Lo dico con tutto il peso dell’esperienza, diretta e indiretta.

Forse suonerò tragica, ma preferisco dire la verità che incontro attraverso storie vere, di vita vera.

Anche se disturbante.

Perché è proprio questo il mio intento: scuotere le coscienze.

Possiamo interrogarci sul senso di tutto questo?

Chi decide cosa è bene per l’altro?

Perché gli “esperti”, lo psichiatra, perfino i familiari, pretendono di sapere cosa è giusto per l’altro?

E se invece fosse la persona stessa, con le sue fragilità e le sue risorse, a poter scegliere?

A poter essere ascoltata, compresa, accompagnata?

I sintomi non nascono dal nulla.

Vogliono parlare. Vogliono gridare. Vogliono esprimersi.

Curare chi non è “malato”, ma ferito, significa smettere di classificare e iniziare ad ascoltare davvero.

Perché, se non si cambia prospettiva, gli “assistiti” saranno sempre di più.

Solo chi ha vissuto tutto questo sa davvero di cosa sto parlando.

“Finché si continuerà a curare i sintomi e a promuovere il concetto di squilibrio chimico del cervello, si continuerà a produrre malattia invece che libertà.”

susi.brunelli@gmail.com

 

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‘Diritti alla Follia’ incontra la corsa “al passo del più lento” nella nuova rubrica “Fuori Controllo”

Diritti alla Follia · 09/09/2025 · Lascia un commento

Di L.E.

L’associazione ‘Diritti alla Follia’ ha da poco inaugurato una nuova rubrica, che si aggiunge alla programmazione già trasmessa settimanalmente attraverso i consueti canali Facebook e YouTube, dal titolo “Fuori Controllo: pratiche di promozione sociale”: una rassegna che “non chiede permesso e non ricerca approvazione”. In essa si darà spazio a voci, azioni e idee fuori dai canoni prestabiliti, per guardare e concepire la realtà in modo ogni volta differente.

Nella prima puntata, (in fondo all’articolo è possibile reperire il link) condotta da Cristina Paderi, abbiamo intervistato Manfredi Giovanni Seu e Stefano “Stewie” Meleddu, i due fondatori del movimento SunCity Run Club. Si tratta di una community sportiva giovane e dinamica, con sede a Cagliari, che usa la corsa come strumento di socializzazione, salute e divertimento, coinvolgendo persone di ogni età e livello di esperienza, e in cui vige un’unica regola: andare al passo del più lento.  L’iniziativa, che si svolge per le strade di Cagliari e dintorni, a cadenza settimanale, sta riscuotendo grande partecipazione tra gli abitanti del comune sardo e successo sui social, come testimoniano le migliaia di followers e le numerose interazioni che il SunCity vanta sui propri profili Instagram e Tik Tok. 

Gli aspetti di questa iniziativa che hanno suscitato il nostro interesse, perché in qualche modo richiamano alcuni dei principi che ‘Diritti alla Follia’ è impegnata a promuovere, sono l’approccio all’insegna dell’inclusività e il perseguimento di pratiche di benessere e socialità spontanea: le sessioni di corsa sono aperte a tutti coloro che desiderano partecipare, siano essi principianti o appassionati, e l’imperativo a cui attenersi è stare uniti senza lasciare nessuno indietro. Non a caso infatti il logo del movimento è la zebra, simbolo di libertà e unità, dal momento che questi animali si muovono in mandria per sostenersi e proteggersi a vicenda. I giovani artefici di SunCity, Manfredi e Stefano, ci hanno raccontato chi sono, come è nata quest’idea e quali sono i loro progetti futuri.

Tutto è iniziato quando i due ragazzi, amici da tempo, si sono resi conto andando a correre insieme degli effetti positivi che la corsa in compagnia è in grado di procurare, a livello fisico e mentale, e hanno quindi sentito il desiderio di coinvolgere anche altri in questa pratica tanto benefica: correre in compagnia è un’esperienza piacevole e stimolante, aiuta a sentire meno la fatica fisica e a superare i propri limiti grazie all’incoraggiamento reciproco.

La comunità di Cagliari ha accolto con entusiasmo la nascita di questa iniziativa, a giudicare dall’adesione sempre più numerosa (soprattutto di giovani) che caratterizza l’appuntamento sportivo settimanale del SunCity e dalla moltitudine di attestazioni di apprezzamento che Manfredi e Stefano ricevono via social dai partecipanti. È proprio la gratitudine espressa dalla “mandria”, (così si chiama la community del movimento), che li ha convinti di aver creato qualcosa di speciale e li motiva a portare avanti il loro progetto.

Tra i punti di forza del programma, oltre all’anima spiccatamente votata all’inclusività e alla socialità “in carne e ossa”, vi è anche la possibilità di trascorrere tempo all’aria aperta, ammirando le bellezze naturalistiche e paesaggistiche che fanno da cornice; un modo per star bene e alleviare solitudine e disagio psicologico attraverso un approccio umano e di solidarietà, alternativo a quello propinato dal sistema istituzionale, che contempla quasi esclusivamente quello sanitario, che invece si attua in interventi di medicalizzazione e/o istituzionalizzazione.

Il movimento SunCity si è dimostrato una sorta di antidoto alla solitudine e al senso di smarrimento che sperimentano molti giovani, per i quali risulta realmente terapeutico ritrovarsi in un contesto di convivialità e sana (non)competizione, in cui è possibile allacciare relazioni di amicizia e condividere interessi e fatiche. Così come è necessario fare passi uno dopo l’altro per avanzare fisicamente durante una corsa, così gli eventi SunCity fanno da sprone a chi si sente isolato e afflitto a compiere passi per uscire dalla gabbia del proprio malessere per godere del piacere di stare insieme.

Qui il link per vedere la puntata: https://www.youtube.com/watch?v=UYyAQXDFuwE&t=155s






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Comunicato stampa: Processo per la morte di Eugenio Carpanedo, il 16 ottobre prevista la conclusione

Diritti alla Follia · 03/07/2025 · Lascia un commento

E’ prevista il 16 ottobre 2025, dopo il rinvio disposto in data odierna, la conclusione a Venezia, a palazzo Grimani, del processo di appello seguito alla tragica morte di Eugenio Carpanedo, morto asfissiato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Santorso-Vicenza, dove era divampato un incendio nella notte del 24 marzo 2017.
L’associazione “Cittadinanza e Salute”, anche oggi presente in aula con la Presidente Aida Brusaporco e una rappresentanza di soci, ha cercato di promuovere un accertamento compiuto su quanto accaduto, con particolare riguardo al grave sospetto che Eugenio Carpanedo, resosi protagonista di una serata agitata, fosse stato oggetto di contenzione, e che per questo non sia poi riuscito a mettersi in salvo una volta diffusosi il fumo.
I tre infermieri condannati in primo grado per non avere adeguatamente controllato anche Carpanedo in quella situazione di emergenza sono comunque il segno della consueta volontà di occultare le responsabilità connesse ad una “organizzazione” del reparto che poteva consentire agli stessi di contenere “in autonomia”. Incredibilmente, il giudice di prime cure non ha tuttavia ritenuto provata la contenzione:
1) c’è’ un “braccialetto” bianco sul polso di Carpanedo (ossia una parte di pelle non ustionata)? Per il Giudice non è una fascetta di contenzione ma un braccialetto identificativo dei pazienti (di cui mai si è parlato come usuale nel reparto);
2) gli infermieri, dopo l’ agitazione di Carpanedo in serata, spostano il letto del paziente fuori dal fuoco del monitor che registra ed armeggiano attorno allo stesso? Per il Giudice non lo hanno contenuto in quel frangente, perché non avrebbero avuto ragione di nascondere l’intenzione dal momento che nel reparto era contemplata. Carpanedo però  non si alzerà più, evidentemente lo avevano calmato …

L’avv. Michele Capano, presidente di “Diritti alla Follia” ed avvocato della costituita parte civile Associazione “Cittadinanza e Salute”, ha dichiarato: ” Saremo qui anche il 16 ottobre per seguire l’epilogo di una vicenda che resta “viva” nel ricordo indignato dei veneti solo grazie al grande lavoro di “Cittadinanza e Salute”, che ringraziamo di averci coinvolto, in particolare con l’amico Edoardo Berton. I Vigili del Fuoco, quando accorsero per spegnere l’incendio, trovarono chiusa la porta della stanza di Carpanedo, nella quale l’incendio si era sviluppato. Ci è stato detto che ciò accadde perché si ritenne Carpanedo spacciato, e ci si dedicò a mettere in salvo gli altri pazienti (magari chiudendo la porta per impedire che fumo e fiamme si propagassero). Noi pensiamo che la porta era chiusa perché, trovato Carpanedo morto asfissiato, lo stesso fu “liberato” dalla contenzione e “affidato” a fiamme che cancellassero le tracce dell’accaduto. Torneremo a sostenerlo qui, a Venezia, con “Cittadinanza e Salute” anche il 16 ottobre, sperando che a Palazzo Grimani la Corte d’Appello trovi la forza per metterlo nero su bianco“.



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Diagnosi alla psichiatria

Diritti alla Follia · 23/06/2025 · Lascia un commento

A tutte le vittime della psichiatria

Di Susanna Brunelli

Mi chiamo Susanna, sono un’ESP – Esperta Per Esperienza, e molti ormai mi conoscono.

Vivo a Verona e sono nata nel 1963, ma la mia rinascita è avvenuta il 18 marzo 2019. Fin da piccola ho sempre avuto una propensione naturale verso la relazione d’aiuto: mi veniva spontaneo essere disponibile all’ascolto, probabilmente perché spesso non mi sentivo ascoltata. Ero timida, ma anche molto empatica, e trovavo facilmente un modo per entrare in connessione con le persone.

Oltre al mio sapere esperienziale, ho acquisito una certa dimestichezza con la scrittura. Mi risulta più facile che parlare. La scrittura è un ottimo strumento per elaborare i pensieri e trasferirli, dopo aver riflettuto più volte, e possiede anche un potere terapeutico.

Nel 2019, una volta riacquisita la mia autonomia, è nato spontaneo il desiderio di dare un senso a tutto ciò che avevo vissuto di traumatico ed estremamente destabilizzante. Così, ho iniziato a cercare nella mia rete di conoscenze, partecipando a incontri di vario genere—che riguardassero la crescita personale, la formazione e l’informazione.

Nel mio percorso, ho scoperto Mad in Italy (https://mad-in-italy.com/).

Grazie ad alcuni contenuti che pubblicavo sui social per promuovere una maggiore comprensione pubblica, sono stata contattata dagli amministratori di questo portale di informazione scientifica, con i quali attualmente collaboro. Mi impegno anche a coinvolgere altre persone desiderose di raccontare la propria storia di trasformazione, dopo un periodo di sofferenza.

Poi, fortunatamente, ho conosciuto “Diritti alla Follia” (https://dirittiallafollia.it/)

 Dal 2019, faccio parte di questa associazione, che mi ha fatto conoscere la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD) (https://informareunh.it/la-convenzione-delle-nazioni-unite-sui-diritti-delle-persone-con-disabilita/ )e gli aspetti giuridico-legali collegati ai diritti degli utenti psichiatrici.

Chi è e cosa fa un ESP? È un Esperto Per Esperienza o un Esperto in Supporto tra Pari. 

L’ESP è una persona che ha vissuto un’esperienza nel campo della salute mentale e può diventare un Esperto in Supporto tra Pari dopo aver intrapreso un percorso di recovery, ovvero un percorso di consapevolezza e autoconoscenza, e aver attuato un processo di cambiamento nella propria vita. 

Avendo acquisito un “sapere esperienziale”, si mette a disposizione di chi sta attraversando situazioni simili a quelle vissute personalmente. 

Attraverso le testimonianze di “pari”, mi sono fatta un’idea tutt’altro che rassicurante della psichiatria, che porta molte persone all’esasperazione: diagnosi, farmaci e stigma. Un cocktail davvero difficile da smaltire.

In chiave provocatoria, critica ed emotiva, mi sono chiesta: e se fosse io a fare diagnosi alla psichiatria, anziché la psichiatria alle persone? È evidente che molte cose nel sistema non funzionano. Raramente ho riscontrato risultati incoraggianti e non ci sono evidenze di buoni esiti delle cure somministrate, anche se conosco personalmente casi di persone sopravvissute – i “Survivors”.

Dunque, si può dire che la “psichiatria” ha una doppia, anzi tripla personalità: sociale, sanitaria e giuridica. Tuttavia, questi tre elementi non sono allineati tra loro, e ciò crea una disfunzione nel sistema.

Per quanto riguarda i sintomi, direi che presenta un disturbo comportamentale e difficoltà a relazionarsi. Mostra tratti narcisistici che portano alla svalutazione e alla manipolazione. Questo comportamento limita l’autonomia e l’indipendenza dell’individuo. Con un atteggiamento paternalistico, ostacola la libertà d’azione delle persone coinvolte. Molti rimangono vittime di questo sistema, sentendosi intrappolati e incapaci di reagire. Sono stati trattati casi evidenti e documentati: basta visitare il sito dell’associazione e leggere le testimonianze.

Spesso si riscontrano aspetti fortemente contraddittori, accompagnati da un importante disturbo dell’attenzione e scarsa empatia. Usa le diagnosi come un modo per dare un senso alla propria esistenza. Tende a regredire e mostra scarsa attenzione ai bisogni degli altri. Si difende e si giustifica dicendo che mancano risorse economiche, umane e di tempo. A volte vanta, in alcune aree, un’efficienza nella gestione, ma non è chiaro se questa sia altrettanto efficace.

Mostra poca volontà di comprendere le ragioni dei richiedenti aiuto. Le sue credenze limitanti impediscono un’evoluzione adeguata, come ad esempio la convinzione che uno squilibrio chimico del cervello richieda farmaci per tutta la vita, come l’insulina per il diabete. Non crede abbastanza nel recupero e nell’autonomia delle persone. Inoltre, fatica ad analizzare i contesti e ignora i problemi contingenti dei singoli, così come le cause di episodi di sofferenza psichica, esistenziale ed emotiva, specialmente nelle situazioni di carattere psicosociale.

In alcuni casi adotta un linguaggio discriminante e talvolta minaccioso. Utilizza metodi coercitivi, che mascherano la propria incapacità di gestire situazioni urgenti ed emergenziali, senza riconoscere che tali comportamenti sono disfunzionali. Non ha ancora compreso che un dialogo aperto e rispettoso, che escluda pratiche traumatiche come il TSO, la contenzione e la somministrazione selvaggia di psicofarmaci, è la strada per un profondo cambiamento interno.

Può essere che il disturbo che si presenta alteri la percezione della realtà, rendendo difficile il riconoscimento di questa condizione. Di conseguenza, la “psichiatria” potrebbe non essere pienamente consapevole e in grado di riconoscere lo stato di difficoltà in cui si trova.

Per ottenere buoni risultati terapeutici e una maggiore capacità di gestione della situazione, sarebbe opportuno che la “psichiatria” consultasse persone con esperienza diretta nel campo della salute mentale. In qualità di esperti per esperienza, esse possono fornire consigli e indicazioni importanti sui bisogni e le preferenze di chi si trova in situazioni simili di difficoltà.

Inoltre, togliere le resistenze e aprirsi maggiormente con fiducia potrebbe consentire alla stessa di acquisire un punto di vista diverso: una nuova via verso il cambiamento e l’assunzione di responsabilità.

Se essa non comprende cosa significhi esporsi senza disporre di tutti gli strumenti necessari per aiutare qualcuno in condizioni svantaggiate può essere “pericolosa sia per sé che per gli altri”. Questa disfunzionalità può avere esiti devastanti per molte persone.

La psichiatria, se persiste nel non chiedere un aiuto autentico e nel rifiutare il cambio di paradigma come sua cura necessaria, rischia la cronicità.

 Nulla esclude che la diagnosi possa evolversi e essere modificata nel tempo; per questo motivo, la psichiatria va tenuta sotto osservazione e, se necessario, denunciata alle autorità competenti.

Suggerisco di  dare un’occhiata al progetto “UNSILENCE YOUR VOICE” : https://heyzine.com/flip-book/d74f685642.html

susi-brunelli@gmail.com

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