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Diritti alla follia

Associazione impegnata sul fronte della tutela e della promozione dei diritti fondamentali delle persone in ambito psichiatrico e giuridico.

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Articoli

Quando l’idealismo porta dritto in galera

Diritti alla Follia · 29/10/2025 · Lascia un commento

Di Gigi Monello

Come ben sanno garlascomani, criminologi per hobby, patiti dell’horror e videodipendenti, “Errare humanum est”. Dopo 17 anni e tre gradi di giudizio, una Procura della Repubblica ha rimesso tutto in discussione su “Garlasco”: forse in carcere è finito un innocente. Forse. La cosa ha messo a rumore mezza Italia e gli appuntamenti fissi in Tv sono trionfi di audience.
Con rumore più modesto, sabato 18 ottobre, a Lecce, la Polizia di Stato ha prelevato e condotto in carcere Gabriella Cassano, un avvocato. Si è così chiuso il lungo iter giudiziario che aveva al suo centro la figura di Marta Garofalo Spagnolo e sullo sfondo il sempre più – a dir poco – inquietante istituto della Amministrazione di sostegno. La Cassano è stata condannata – in via definitiva – per avere, in concorso con il suo compagno Fabio Degli Angeli ed altri, circonvenuto, sottratto, sequestrato e abbandonato un incapace; la citata Garofalo, all’epoca dei fatti ventisettenne.

Marta Garofalo Spagnolo nasce nel 1991 da una relazione occasionale e vive infanzia e fanciullezza presso i nonni materni, in un quadro familiare di ristrettezze, degrado e assenza di stimoli: non ha mai conosciuto suo padre e intrattiene con la madre (Spagnolo) un rapporto discontinuo e spesso conflittuale. Con la morte del nonno Ercole la situazione si deteriora ulteriormente. Nel 2010, quando ha 19 anni e sta frequentando il Liceo Pedagogico Siciliani di Lecce, chiede alla madre di conoscere l’identità di suo padre, e saputala, va a trovarlo e gli rivela di essere sua figlia: i due parlano, si rivedono, comincia una frequentazione. Il padre naturale (Garofalo) manifesta l’intenzione di riconoscerla legalmente.

L’aver passato gli anni cruciali della sua formazione in una situazione di vuoto di riferimenti affettivi forti, ha, però, segnato profondamente la personalità di Marta, che, come due successive perizie psichiatriche stabiliranno, soffre di un “lieve/moderato deficit cognitivo”, che è conseguenza della deprivazione affettiva e socio-culturale in cui è cresciuta. Il che significa che non è un soggetto incapace di intendere e di volere, ma “indebolito”; cosa che in teoria lascia prospettive di recupero indefinibili.
Le tensioni familiari intanto non cessano: disturbi fisici e momenti depressivi inducono Marta a chiedere aiuto ai Servizi sociali del suo Comune. È il passo fatale: i medici prescrivono psicofarmaci; ma lei, dopo averli sperimentati, comincia a fare resistenza; non vuole assumerli, afferma che quando lo fa si sente meno sveglia. I Servizi sociali, a questo punto, la segnalano al Giudice tutelare chiedendo la nomina di un Amministratore di sostegno. La Legge che nel 2004 – con travolgente successo di numeri – è stata introdotta in Italia, consente questa soluzione “prêt-à-porter”.
Marta – che di lì a poco conseguirà il diploma – continua a vedere suo padre, che conferma di volerla riconoscere. Per questa ragione, ma anche al fine di impedire la nomina di un Amministratore, il Garofalo, su consiglio di Degli Angeli (suo conoscente), si affida all’Avv. Cassano. Il 17 febbraio 2011, davanti al Giudice, Marta dichiara,

“Non ho bisogno di un amministratore di sostegno con mia nonna litigo spesso perché spesso mi manda a dire cose a mia madre e questo non mi va. Esco con mio padre Garofalo Luigi, mi reco a Carmiano dove mi incontro con delle amiche in casa loro: Margherita e Marietta. Frequento il Liceo Psicopedagogico a Lecce. Mi hanno prescritto una terapia farmaceutica in compresse e gocce ma non la voglio assumere perché quando non la assumo sono più sveglia”.

Tutto invano: inspiegabilmente ignorata un’istanza di perizia psichiatrica, nel luglio 2011 viene nominato l’Amministratore (un avvocato); e nell’ottobre dello stesso anno Marta entra in una “Struttura” (vengono amenamente definite “case-famiglia”). Nel gennaio del 2012, la prima fuga: si fa 4 km a piedi e raggiunge, in un paese vicino, la casa di uno zio; che avvisa i Carabinieri. Da questo momento, fughe e tentativi di liberarsi si susseguiranno nel tempo.

La situazione si trascina per anni: tra contatti sempre più impediti, tensioni, contrasti, contestazioni, battaglie legali; il padre continua la sua azione per il riconoscimento legale, mentre Cassano e Degli Angeli, per loro conto, finiscono per affezionarsi e provare pietà per questa infelice disperata – ma anche sdegno per il sistema che la incastra – ; e per determinarsi a fare qualcosa per liberarla. Nell’ottobre del 2017, Marta scappa di nuovo dalla Struttura: i Carabinieri la ritroveranno a otto chilometri di distanza. Nello stesso anno, Garofalo è divenuto anche legalmente padre.

La “partita” intorno alla vita della cittadina italiana Marta Garofalo Spagnolo approda ad un passaggio cruciale nel gennaio 2018.
Decisi a presentare istanza per la revoca – o, in alternativa, la sostituzione – dell’ Amministratore di sostegno, allo scopo di sottrarla a prevedibili pressioni che potrebbero distoglierla da qualcosa che ha sempre manifestato di desiderare (essere libera), Degli Angeli e Cassano compiono un pericoloso azzardo: il 14 gennaio si recano in visita presso il reparto psichiatrico dell’ Ospedale leccese dove Marta si trova provvisoriamente; e la fanno allontanare con loro. L’interessata firma la richiesta di revoca/sostituzione dell’AdS: nel caso la decisione si dovesse orientare verso la sola sostituzione, il primo nome proposto è quello di S., una vecchia amica di Marta; in seconda battuta la Cassano propone se stessa.
Il 25 gennaio si svolge l’udienza: il Giudice ordinario è, però, assente, e il supplente, vistane la delicatezza, preferisce congelare la cosa sino al rientro del collega. Durante l’udienza, in aula entra un agente di Polizia che consegna alla Cassano e a Marta una convocazione in Procura. È stato aperto un fascicolo penale. Pochi giorni dopo, il Giudice titolare rigetta il ricorso e riaffida la ragazza alla struttura e all’Ads in carica.

Naturalmente, per i “rapitori” Cassano-Degli Angeli le cose prendono a mettersi male. Il PM che indaga sulla scomparsa di Marta, li accusa di sottrazione, sequestro, abbandono e circonvenzione di incapace. Per qualche tempo vengono trattenuti in stato di arresto.

Ciò che li “inguaia” definitivamente è l’incidente probatorio del 3.7.18, durante il quale “la circonvenuta” fa esternazioni – siamo a 6 mesi di distanza dai fatti – che accreditano le ipotesi dell’Accusa: prende le distanze dagli amici liberatori: “mi hanno presa dall’ospedale senza l’autorizzazione dei medici” (in precedenza, al PM aveva detto: “me sono scappata dall’ospedale, è vero; però non ho fa… non ho ammazzato nessuno”); rivede la sua valutazione sull’ AdS, cui ora dice di volere “tanto bene che la chiamo pure mamma”; rimarca l’imprudenza dei Cassano-Degli Angeli: “Fabio e Gabriella non avevano capito che io senza farmaci non riuscivo a stare per troppo tempo”.

Questa ed altre prove portano il Giudice di primo grado a decidere per la condanna: 4 anni e sei mesi ciascuno. Naturalmente ricorrono. Ma anche il Giudice d’Appello giunge alle stesse inesorabili conclusioni (con “certezza granitica”): quando vanno a trovarla in ospedale per farla uscire, la ragazza non è capace di autodeterminarsi e dunque l’agire degli imputati è una manovra dolosa tesa a suggestionare una persona inabile a comprendere la realtà; e soprattutto a resistere ad una altrui volontà che le appaia solida e rassicurante.
Il movente del disegno criminoso? È evidente: “unico e precipuo” scopo dei due, era quello di “ottenere la nomina della Cassano quale amministratore”; e ciò al fine di poter gestire le disponibilità economiche della assistita.

Tutto chiaro? Ho voluto leggere integralmente le motivazioni della sentenza di condanna in appello: è un testo ampio, articolato, dettagliato, ricco di riferimenti dottrinali e scientifici; 74 fitte pagine di argomentazioni ben scritte, elaborate, organizzate.
Eppure, terminata la lettura, non ho potuto fare a meno di provare un senso di sospensione. E mi è tornato in mente un mio conoscente, il barista che per buoni vent’anni mi ha servito la colazione nel bar sotto casa; un artista del disegno sulla schiuma del cappuccino; uno dal curriculum scolastico breve (un primo anno di superiori) ma dal “discorso lungo”; Luca, un uomo comune; ma con una qualità che, in vent’anni d’ascolto, mi si era fatta sempre più chiara: un fiuto spontaneo per l’illogico, Momento! … la cosa non mi quadra. Questa la sua tipica uscita.

Studiare una vicenda giudiziaria è un lavoro temibile: lunghi lassi di tempo, molti protagonisti, accumularsi di infiniti dettagli, interpretabilità delle situazioni, versioni divergenti, ambiguità, imbrogliarsi delle cose. Non invidio Giudici e Avvocati: c’è spesso di che sviluppare un mal di testa.
Qualcosa che non quadra nella sentenza d’appello? Possibile. Isoliamo soltanto tre cose :

1) La ragazza viene, di volta in volta, definita, “soggetto altamente suggestionabile”, “altamente vulnerabile”, “influenzabile”, “manipolabile”; in una condizione di “inferiorità psichica” e “dipendenza”; incline “ad affidarsi ciecamente e totalmente a chiunque le garantisse, o anche solo promettesse, attenzione e cura”.
Ma se una persona è strutturalmente così, non è ragionevole supporre che resti così, chiunque sia il soggetto che ha di fronte? (amici, avvocati, medici, pubblici ministeri, poliziotti, infermieri, gestori di case-famiglia, giudici, etc etc). È sufficiente che chi le sta davanti appaia forte, “vincente” e “dispensatore di sicurezza”.

Se questo è vero, allora per capire cosa vuole veramente Marta, bisognerebbe tenere conto solo di quel che fa quando è sola; cioè quando fugge senza portarsi dietro gli psicofarmaci.
Ed ora una domanda spontanea: niente niente, realizzato che gli “altri” erano dei perdenti (addirittura nei guai), Marta si è riposizionata per compiacere i soli che potevano ancora proteggerla?

2) Il movente dei rei sarebbe la volontà di appropriarsi delle disponibilità economiche della Garofalo: la sentenza le specifica: Marta dispone, mensilmente, di 250 euro di pensione di invalidità civile e di 500 di indennità di accompagnamento; su un libretto postale a suo nome sono poi depositati 9000 euro. Dei due principali attori di questo giudizio, uno fa l’avvocato, l’altro ha un posto in ditta (la falegnameria di famiglia): si sarebbero esposti a gravi conseguenze materiali, allettati da questo patrimonio e dopo anni di preparativi?
Anche qui una domanda spontanea: niente niente, avessero, “i rapitori”, agito con lauta dose di temerarietà, ma per puro idealismo?

3) Unico scopo di uno dei condannati era farsi attribuire il ruolo di AdS. Ma se si ripassano le fitte fitte 74 pagine, si scopre che nell’istanza al Giudice tutelare, questa unicità non esiste: prima di indicare se stessa come nuovo gestore di quel po’ po’ di patrimonio, la Cassano dà precedenza – nell’ordine – a : 1) la revoca; 2 ) la nomina della amica S.
Ancora una domanda spontanea: niente niente, non coltivasse, l’avvocata, alcun basso interesse personale?

Dice un vecchio adagio della Civiltà giuridica anglo-sassone che per condannare qualcuno si deve raggiungere quella condizione mentale consistente nel trovarsi al di là di ogni ragionevole dubbio. È successo, in questo caso? Decida il lettore.

Un ultimo dettaglio: il 3 novembre 2022 Marta Garofalo si è suicidata in Struttura, ingerendo una massiccia dose di psicofarmaci. Infarto fulminante. È fuggita per l’ultima volta. Senza che nessuno la influenzasse.

http://iscolla.blogspot.com/2025/10/quando-lidealismo-porta-dritto-in-galera.html

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Giorgio Antonucci: L’approccio No-Psichiatrico, precursore di CRPD e Dialogo Aperto

Diritti alla Follia · 23/10/2025 · Lascia un commento

Di Maria Rosaria D’Oronzo

Il lavoro di Giorgio Antonucci (1973-1996) al Reparto Autogestito di Imola non è stata una riforma, ma un approccio no-psichiatrico radicale, fondato sulla piena dignità umana e anticipatore del diritto internazionale e delle pratiche sistemiche moderne.

Antonucci, allievo di Assagioli e vincitore del Premio Thomas Szasz, vedeva il disagio non come ‘malattia mentale’, ma come crisi esistenziale da affrontare con il dialogo tra pari, respingendo ogni forma di coercizione (TSO, contenzione) e la diagnosi come pregiudizio etichettante.

La sua prassi fu il compimento dei suoi principi etici:

De-istituzionalizzazione e Cittadinanza (Ante Litteram CRPD)

Chiamato a Imola nel 1973, Antonucci chiese il reparto più duro (Reparto 14). La sua prima azione fu etica e immediata: slegare le donne e restituire gli abiti civili. Successivamente, nel Reparto Autogestito, compì l’atto legale più radicale: scrisse nelle cartelle cliniche che tutti gli ex degenti erano in buona salute psicofisica, abolendo di fatto il loro status di “internati”.

Questa azione ristabilì la loro piena capacità giuridica (CRPD, Art. 12) ed è la pratica ante litteram del diritto alla libertà e integrità.

Dialogo Aperto e Inclusione (Cultura e Cura)

Il suo modello terapeutico era basato sull’ascolto continuo e la non-coercizione, un chiaro precursore del moderno Dialogo Aperto (Open Dialogue).

L’inclusione era culturale:

  • Gli ex degenti avevano le chiavi del reparto.
  • Furono organizzati eventi con la città: concerti di musica classica (Andrea Passigli, Aldo D’Amico – violoncello) e pop (Francesco Baccini), vernissage con artisti fiorentini guidati da Piero Colacicchi e la testimonianza letteraria di Dacia Maraini.

L’arte e il dialogo erano la restituzione dell’identità sociale.

L’Eredità: Il Processo e la CRPD

La pressione istituzionale culminò nel processo del 1991, che mirava a processare il principio stesso della libertà. Nonostante l’assoluzione, il Pubblico Ministero fece appello, evidenziando la persistente ostilità verso il suo approccio.

La sua lotta per i diritti economici (pensione, salario per il lavoro) e l’abitazione autonoma riflette pienamente gli Art. 27 e 28 della CRPD.

Il Reparto Autogestito è la prova concreta che la visione di Antonucci non era un’utopia, ma la pratica anticipata dei diritti umani in psichiatria. Il suo lascito dimostra che la sofferenza merita dialogo, dignità e libertà, e non repressione medica.

Per approfondimenti:

il sito del Centro di Relazioni Umane di Bologna e il sito d’archivio di Giorgio Antonucci

 www.antipsichiatria-bologna.net   https://giorgioantonucci.org/

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COMUNICATO STAMPA

Diritti alla Follia · 17/10/2025 · Lascia un commento

Caso Carpanedo: un’occasione mancata per la Corte d’Appello di Venezia

Oggi, 16 ottobre 2025, si è concluso a Venezia il processo di appello nei confronti dei due infermieri e dell’operatore socio sanitario condannati (con decisione confermata) per omicidio colposo nei confronti di Eugenio Carpanedo. La notte tra il 23 ed il 24 marzo 2017, secondo i Giudici non avrebbero adottato le cautele necessarie per evitare la morte di Carpanedo in occasione dell’incendio divampato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Santorso-Vicenza. 

La Corte d’appello ha anche confermato il diniego del risarcimento nei confronti della parte civile “Cittadinanza e Salute”, presente in udienza con la Presidente Aida Brusaporco e con gli associati Edoardo Berton, Bruna Lanaro e Dolores Razzi (nella foto). Leggeremo le motivazioni: intanto segnaliamo che questa decisione non può che preludere all’ ulteriore negazione di una realtà evidente: Carpanedo era sottoposto a contenzione meccanica e per questo non riuscì a mettersi in salvo. Avere negato la realtà della contenzione, con risibili argomento, ha consentito e sta consentendo che a “pagare” siano i “pesci piccoli”, come sempre. Si segnala, poi, come continui a “scoraggiarsi” la presa in carico di queste vicende da parte del mondo associazionistico: l’unico in grado di farle uscire dal “buio” comunicativo in cui le si vorrebbe relegare.

Associazione ‘Diritti alla Follia’                             lì 16 ottobre 2025

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Non può esserci ‘salute mentale’ senza consenso

Diritti alla Follia · 10/10/2025 · Lascia un commento

Radio Kalaritana ci ha ospitati per parlare di diritti negati in psichiatria e per presentare il Convegno che si terrà a Cagliari il prossimo 12 novembre, dal titolo “Cittadini senza cittadinanza – Diritti negati in psichiatria”.
Abbiamo colto l’occasione per riflettere insieme sulle violazioni dei diritti fondamentali che ancora oggi subiscono molte persone direttamente coinvolte in ambito psichiatrico.

Abbiamo scelto Cagliari perché intendiamo portare anche in Sardegna un momento di confronto pubblico su questi temi. L’iniziativa nasce su proposta della nostra socia sarda Martina Mura, che si è impegnata per organizzarla insieme al Direttivo dell’associazione.
Diritti alla Follia opera a livello nazionale, ma per noi è fondamentale essere presenti anche nei territori, incontrare le persone, ascoltare esperienze dirette, confrontarci con realtà locali e professionisti.

Il titolo del Convegno — “Cittadini senza cittadinanza – Diritti negati in psichiatria”.
 mette in luce una contraddizione profonda: molte persone che entrano in contatto con i servizi psichiatrici pubblici, pur essendo cittadini come tutti, non vedono riconosciuti nella pratica i loro diritti fondamentali.
Quando parliamo di diritti negati, ci riferiamo a situazioni molto concrete: non solo al Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma anche a tutte quelle circostanze in cui la libera scelta del medico o del luogo di cura viene di fatto preclusa, o in cui la persona non riceve informazioni chiare e comprensibili sui trattamenti che la riguardano.

Questa mancanza di informazione non si manifesta solo durante il TSO, ma anche negli ambulatori, nei reparti psichiatrici e in tutta la successiva presa in carico.
Ci riferiamo poi alla violazione della privacy, quando dati sensibili vengono trattati senza la dovuta riservatezza, e alla coercizione fisica o farmacologica, che purtroppo resta presente in molte strutture.
Sino ad arrivare alla contenzione, cioè all’essere legati al letto per ore o giorni interi — una pratica che dovrebbe essere bandita da qualunque contesto sanitario.
In alcuni casi, abbiamo raccolto anche segnalazioni di abusi fisici e violenze sessuali subiti da persone ricoverate in stato di costrizione, senza che vi sia stato un reale controllo o una possibilità effettiva di difesa.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio dovrebbe essere disposto solo in casi di necessità e urgenza, quando una persona manifesta una grave alterazione psichica, rifiuta le cure e non è possibile intervenire in modo alternativo al ricovero. Serve la proposta di un medico, la convalida di un secondo medico e, infine, l’autorizzazione del sindaco, che agisce come autorità sanitaria. Entro 48 ore, il provvedimento deve essere convalidato dal giudice tutelare, che dovrebbe verificare se ci siano davvero le condizioni previste dalla legge.

Sulla carta, quindi, il TSO è una misura eccezionale e temporanea; nell’attuale normativa i presupposti per il TSO però sono vaghi, i controlli poco efficaci e le garanzie della persona non sono realmente attuabili. Non sempre è garantita la comunicazione con l’esterno o il diritto alle visite, e questo accresce la sensazione di isolamento e impotenza di chi vi è sottoposto. Gli abusi, poi, non si fermano al TSO: si verificano anche prima e dopo, nelle strutture residenziali, nei centri di salute mentale, nelle carceri e nelle REMS.

La recente sentenza n. 76 del 2025 della Corte Costituzionale ha riconosciuto l’incostituzionalità dell’articolo 35 della legge sul TSO, nella misura in cui non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e tempestivo sulla privazione della libertà personale.
La Corte ha ribadito un principio chiaro: nessuna finalità terapeutica può giustificare la sospensione dei diritti fondamentali.

Come associazione, da tempo chiediamo una riforma profonda della legge 833/1978. La nostra proposta di legge di iniziativa popolare mira a introdurre garanzie reali: informazione e notifica obbligatorie del provvedimento alla persona e al suo legale, difesa legale gratuita e obbligatoria sin dall’inizio, audizione diretta della persona da parte del giudice, durata massima di quattro giorni prorogabile solo due volte, divieto assoluto di contenzione fisica e farmacologica, piena tracciabilità dei TSO e accesso delle associazioni di tutela nei reparti.

La riforma si ispira agli standard internazionali indicati dal Comitato ONU, dal CPT e dall’OMS, che chiedono di superare le pratiche coercitive e sostituirle con modelli basati sul consenso, sul sostegno e sull’autodeterminazione.

Diritti alla Follia è un’associazione indipendente, senza fini di lucro, che promuove i diritti di utenti, ex utenti e sopravvissuti alla psichiatria. Abbiamo lanciato campagne come “Se la Tutela diventa Ragnatela” e “Fragile a Chi?!”, curiamo la rubrica “Il Diritto Fragile”, e collaboriamo con reti europee come ENUSP e Mental Health Europe.
Ci occupiamo di segnalazioni di abusi, ricerca giuridica e sociale, e formazione sui diritti e sul consenso informato.

Per conoscere nel dettaglio le nostre attività e le proposte di riforma, potete visitare il nostro sito www.dirittiallafollia.it o seguirci su Facebook, Instagram, YouTube e Telegram.

E vogliamo concludere con le parole pronunciate ai microfoni di Radio Kalaritana:

“Non può esserci ‘salute mentale’ senza consenso”

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Processo agli psicofarmaci “Abbiamo confuso il curare con l’‘aggiustare’”

Diritti alla Follia · 07/10/2025 · Lascia un commento

Di Susanna Brunelli

Susanna, ESP – Esperta per Esperienza, con questo testo solleva una critica radicale e pone una domanda cruciale sulla psichiatria contemporanea: di quale “cura” stiamo realmente parlando?

C’è un momento, nella vita di chi attraversa la sofferenza psichica, in cui la parola “cura” smette di suonare rassicurante e inizia a pesare.

Ho conosciuto da dentro il mondo della psichiatria: prima come familiare, poi come diretta interessata. Ho imparato a riconoscere i silenzi, le paure e le speranze di chi vive quel confine sottile tra diagnosi e identità.

Nel corso degli anni, ho notato come spesso si descriva la salute mentale soltanto come una questione di accesso alle cure. Tuttavia, la domanda che mi accompagna è un’altra: di quale tipo di “cura” stiamo parlando?

Perché, se è vero che gli psicofarmaci possono offrire un sollievo momentaneo o una certa stabilità, è altrettanto vero che non possono essere la risposta al disagio esistenziale.

Troppe volte ho visto la “cura” trasformarsi in un confine.

Quando il farmaco diventa lo strumento in cima alla piramide, la persona rischia di scomparire dietro la diagnosi — diagnosi che spesso cambia come se fosse un’opinione.

Le sofferenze, nella maggior parte dei casi, nascono da relazioni interrotte, ambienti ostili, disarmonie diffuse, vite che chiedono ascolto più che aggiustamenti chimici.

Ho sentito una frase che mi risuona molto:

“Non ci sono cure da fare, ma problemi da risolvere.” — Dott. Giorgio Antonucci

Non si tratta di negare l’utilità dei farmaci, ma di riconoscerne i limiti.

Un antidepressivo può calmare l’angoscia, ma “toglie il sentire”.

Un antipsicotico può ridurre le voci, ma non restituisce senso a chi sta cercando di esprimere qualcosa di indicibile.

Le benzodiazepine possono aiutare in un momento in cui l’ansia ti attanaglia, ma rischiano di fare l’effetto opposto se usate a lungo termine.

Si sta confondendo il curare con l’aggiustare, la salute con la conformità.

La vera cura passa attraverso la possibilità di essere ascoltati senza il timore di andare incontro al peggio se ci si apre a chi dovrebbe aiutarti.

Forse è il momento di analizzare il termine “cura” e di mettere sotto processo gli psicofarmaci.

Non per condannarli, ma per liberarli dall’impossibile ruolo di sostituire l’umanità con la chimica.

Si parla molto di diritto alla salute, ma che senso ha la cura se questa non equivale a far stare bene?

Perché non rispettare le persone, anche con le loro vulnerabilità, caratteristiche e talenti?

Perché ci spaventa la vulnerabilità?

Siamo esseri umani. Tutti possiamo vivere momenti di crisi, di limite, di rottura, di protesta. La risposta, però, non può essere sempre la medicalizzazione.

Anche la tristezza e lo smarrimento hanno un loro significato.

Perché etichettarli subito come patologia?

Esiste una connessione profonda tra salute mentale, sentimenti, pensieri ed emozioni — tra il nostro stato interiore e le relazioni che viviamo.

Eppure, tutto dev’essere “gestito”, “contenuto”, “sanitarizzato”: come se l’emotività fosse una malattia.

Come ESP, sento fortemente l’urgenza di riportare al centro il contenuto umano ed esistenziale delle persone.

Le numerose persone che ascolto mi parlano di come vorrebbero trovare canali alternativi a quelli tradizionali, poiché l’insoddisfazione aumenta con il passare del tempo dall’inizio dei trattamenti e dalla presa in carico ai servizi.

Ancora oggi ci si limita a contenere, a riparare, a “gestire”, ma non si va alla radice.

Quando porto questi temi alla luce, spesso non risulto “empatica”, ma “antipatica”.

Perché mi rifiuto di restare in superficie. Voglio dar spazio alla protesta.

Io quella melma l’ho guardata. Ci sono scesa dentro.

Ho sentito l’odore, il disgusto, l’amaro delle cose che sembravano accettabili ma non lo erano affatto.

E ho capito che, per uscirne, bisogna stare nel dolore — non fuggirlo, non addormentarlo, non sopprimerlo.

Conferenze, articoli, congressi… Tutto interessante.

Ma nel frattempo, le persone continuano a soffrire e a morire.

Corpi che si ammalano, sottoposti agli effetti causati dagli psicofarmaci, perché assunti per periodi indefiniti e infiniti — ignorati, sottovalutati, taciuti.

Senza amore, senza pazienza, senza la volontà di ascoltare davvero, la cura diventa un atto di protocollo, un esercizio di medicina difensiva.

Ma niente che assomigli davvero a qualcosa che faccia stare bene.

I sintomi parlano. Parlano della nostra anima, della nostra storia, delle relazioni che ci hanno ferito.

Chi non ha mai vissuto un momento difficile nella propria vita?

Emozioni forti, pensieri distruttivi, desiderio di fuggire, di sparire…

Invece di mettere tutto a tacere, proviamo ad ascoltare!

Da dove arriva quella rabbia? Quella paura? Quella frustrazione?

Chi si prende cura della sostanza?

Molto spesso ascolto storie come queste:

Ragazze che a 14 o 16 anni hanno già intrapreso una “carriera psichiatrica”.

Una giovane di 21 anni, con perdita di sensi e rovesciamento degli occhi, dopo la somministrazione di un depot neurolettico.

Un ragazzo di 29 anni con disfunzione sessuale permanente da SSRI.

Una donna di 30 anni con acatisia, il corpo trasformato, istituzionalizzata perché divenuta aggressiva dopo i trattamenti.

Chi vive queste storie spesso non ha voce.

I familiari si disperano, non sanno a chi rivolgersi.

E chi dovrebbe aiutarli, troppo spesso, non sa, non ascolta, non vuole sapere, non ha tempo.

Io non credo che la psichiatria abbia solo pazienti in crisi: è essa stessa in crisi.

Ho visto troppe persone stare male nella “cura” — e anche morire di psichiatria.

Lo dico con tutto il peso dell’esperienza, diretta e indiretta.

Forse suonerò tragica, ma preferisco dire la verità che incontro attraverso storie vere, di vita vera.

Anche se disturbante.

Perché è proprio questo il mio intento: scuotere le coscienze.

Possiamo interrogarci sul senso di tutto questo?

Chi decide cosa è bene per l’altro?

Perché gli “esperti”, lo psichiatra, perfino i familiari, pretendono di sapere cosa è giusto per l’altro?

E se invece fosse la persona stessa, con le sue fragilità e le sue risorse, a poter scegliere?

A poter essere ascoltata, compresa, accompagnata?

I sintomi non nascono dal nulla.

Vogliono parlare. Vogliono gridare. Vogliono esprimersi.

Curare chi non è “malato”, ma ferito, significa smettere di classificare e iniziare ad ascoltare davvero.

Perché, se non si cambia prospettiva, gli “assistiti” saranno sempre di più.

Solo chi ha vissuto tutto questo sa davvero di cosa sto parlando.

“Finché si continuerà a curare i sintomi e a promuovere il concetto di squilibrio chimico del cervello, si continuerà a produrre malattia invece che libertà.”

susi.brunelli@gmail.com

 

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